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Questo articolo è stato pubblicato il 16 febbraio 2013 alle ore 10:45.
Dietro l'etichetta di "guerra delle valute" posta sul G20 che si apre a Mosca, si nasconde il grande dilemma di oggi delle banche centrali. Devono essere ancora più aggressive, visto che l'economia non migliora o peggiora ancora come nel caso europeo? E in caso positivo, possono violare i canoni dell'ortodossia che avevano finora messo al bando il finanziamento monetario dell'economia e del settore pubblico in particolare?
Il cambio è solo la conseguenza delle risposte date a questi interrogativi. Stati Uniti e Giappone hanno optato decisamente per il sì, soprattutto quest'ultimo dopo la formazione del nuovo governo. Come conseguenza lo yen si è deprezzato da settembre del 16% contro il dollaro e del 19 contro l'euro. Ma anche il Regno Unito sembra pronto ad imboccare questa strada come dimostrano recenti dichiarazioni del presidente della Fsa e, quel che più conta, del futuro governatore della Bank of England. In Europa, il capo della Bundesbank in un discorso ufficiale di qualche mese fa si è invece trincerato dietro la citazione del Faust di Goethe per ribadire che il finanziamento monetario è illusorio e controproducente, perché «degenera in inflazione e distrugge il sistema finanziario».
Il problema è che la situazione europea non accenna a migliorare e l'orizzonte della ripresa viene spostato sempre più in là. L'Economist ha addirittura definito i dati diffusi giovedì sull'attività produttiva in Europa come "il massacro di San Valentino". Nel frattempo l'euro si mantiene su livelli alti rispetto a tutte le principali valute e questo problema, tanto per cambiare, non è grave se si guarda all'area monetaria nel suo insieme, ma diventa tale se si considerano i singoli casi e ovviamente quello italiano. Una recente ricerca di Deutsche Bank stima la "soglia critica" (painful threshold) del cambio per l'Europa in uno scenario di crescita mondiale del 4,2 per cento: il risultato è di 1,34 per l'area dell'euro nel suo insieme, quindi in linea con i valori correnti, ma circa 1,2 per Francia e Italia (per l'esattezza, 1,24 e 1,17 rispettivamente).
Il che significa che il cambio attuale è superiore di circa il 15 per cento a quello critico e - al di là dei problemi di competitività nel medio termine dell'economia italiana - costituisce un grave fardello proprio per il settore dell'export che finora ha risentito meno del quadro recessivo.
Draghi ha affermato ieri che «non si può creare crescita gonfiando i bilanci», il che è assolutamente coerente con i vincoli attuali dell'unione monetaria e con l'interpretazione del mandato della Bce finora adottato. Ma non si può non tener conto di due importanti elementi. Il primo è che ci stiamo muovendo in acque finora inesplorate e dunque il confine dell'ortodossia è quanto meno assai labile. In secondo luogo, se è stato possibile inventare un "big bazooka" per salvare le banche, non possiamo discutere di qualche arma analoga per uscire dalla spirale rovinosa della recessione?
Il problema vero è che una svolta simile è impedita non tanto dalla lettera del Trattato, ma dalla volontà politica europea. Fatto salvo il sacrosanto concetto di indipendenza della banca centrale, è evidente che politiche monetarie ancora più aggressive di quelle finora poste in essere possono essere realizzate solo a condizione che esista un solido accordo politico, come quello che oggi hanno alle spalle i governatori di Usa e Giappone e domani forse del Regno Unito. Ma su questo punto cruciale nessuno spiraglio sembra ancora aprirsi in Europa.
Il governatore della Bce ha affermato esplicitamente che la recessione in corso, che si dimostra essere molto più resistente di quanto previsto dalle stime ufficiali degli ultimi due anni, è dovuta alla «mancanza di finanziamenti», cioè ad un credit crunch più grave e più dannoso del previsto per il sistema produttivo. Ciò significa che il sistema bancario europeo è stato salvato con costi enormi per i contribuenti, è stato reso ragionevolmente robusto da ricapitalizzazioni cospicue, ma non ha sufficiente capacità di fornire nuovi mezzi finanziari all'economia. La situazione (e soprattutto il concetto di robustezza) varia da paese a paese, ma la stretta sul credito è un dato di fatto ed è ormai un fattore negativo della crescita. La liquidità creata dalla Bce non si traduce né in aumento dei depositi (dunque della moneta e della capacità di spesa) né in prestiti. E la robustezza patrimoniale è condizione necessaria ma non sufficiente per riavviare l'offerta di credito.
Quando Draghi dice che «bisogna trovare la strada per avere più credito per l'economia reale, creando lavoro e producendo crescita» lancia quindi un monito alla politica europea: la banca centrale non può agire da sola, ma occorre trovare una soluzione concordata ed efficace. La conseguenza da trarre da queste dichiarazioni è una sola: se la Bce è stata capace di usare misure non convenzionali (il famoso «whatever it takes») per salvare l'euro, ora è il compito della politica, perché altrimenti una iniziativa autonoma rientrerebbe fra quelli che Carli chiamava "atti sediziosi". Il problema è che i politici a cui è rivolto questo monito sono gli stessi che hanno appena varato il bilancio dell'Unione meno lungimirante della storia europea.
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