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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 16:19.

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La vera svolta in Europa è tornare a fare della politica industriale l'asse strategico per la crescita. Dopo il «Fiscal compact» ora è il tempo dell'«Industrial compact». Antonio Tajani, vicepresidente della Commissione Ue e commissario per l'Industria e l'Imprenditoria, invita a guardare al di là delle polemiche della campagna elettorale e sposta il tiro sui punti nodali con i quali dovrà misurarsi il prossimo governo, qualsiasi sia la sua composizione. Serve più Europa e più politica industriale, anche per contrastare i populismi di varia natura.

I dati appena resi noti da Eurostat segnalano una situazione di perdurante crisi congiunturale. È l'effetto del rigore a senso unico, con prospettive assai poco incoraggianti sul fronte della crescita e dell'occupazione. Vi sono margini concreti perché l'«Industrial compact» veda effettivamente la luce?
Se si chiedono sacrifici ai cittadini e alle imprese per far fronte alla crisi dei debiti sovrani e risanare i conti pubblici, senza che al rigore si accompagnino politiche attive in direzione della crescita, quegli stessi sacrifici rischiano di risultare inutili. Non è certo l'Europa della finanza che può far emergere la Ue dalle secche della recessione. Dobbiamo renderci conto tutti che senza l'economia reale non si esce da questa spirale. La Commissione europea e il presidente Barroso ne sono perfettamente consapevoli, tanto che ci siamo posti l'obiettivo di incrementare tutto il settore manifatturiero del 20% entro il 2020. Occorre agire in fretta, invertire la tendenza, puntare a una vera, profonda reindustrializzazione dell'Europa. L'ho detto più volte in queste settimane. Attenzione, non possiamo fare a meno dell'industria dell'acciaio, dell'auto, dell'industria aerospaziale, dell'industria della difesa. Non possiamo fare a meno di 23mila piccole e medie imprese. Per questo ho proposto di dar vita all'Industrial compact.

Il recupero di competitività dell'intera economia europea è del resto una via obbligata anche per far fronte agli effetti di quella che è stata definita la guerra delle valute.
Certamente, nella constatazione che non stiamo immaginando una reindustrializzazione a livello europeo sul modello degli anni Cinquanta. Ora le sfide occorre giocarle anche sul terreno della green economy, della riduzione delle emissioni inquinanti e su quello delle energie rinnovabili. È l'impegno che sto cercando di porre in essere nei miei cinque anni di mandato. Rendere l'industria europea più competitiva è la strada maestra per immettere carburante nel motore della crescita. Nella Commissione europea c'è un'ampia convergenza e consapevolezza su questi temi, così come su quello della ricerca e dell'innovazione, asset strategici finalizzati alla nuova politica industriale. È significativo al riguardo che martedì scorso la Commissione europea abbia riunito a Bruxelles i rappresentanti imprenditoriali e sindacali della siderurgia, cui hanno partecipato tredici paesi produttori di acciaio. Così come appare di grande rilevanza strategica il settore della cantieristica navale. Lo ribadisco: o facciamo politica industriale o perderemo la sfida con i nostri competitori internazionali. E allora perché non istituzionalizzare un Consiglio Industria di tutti i ministri?

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