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Questo articolo è stato pubblicato il 18 febbraio 2013 alle ore 08:07.

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Nel Paese dell'ipocrisia contabile c'è un debito commerciale che, fino a quando non venga riscosso, nel bilancio dello Stato è come se non esistesse. In genere i ministri alludono vagamente a un ammontare non conoscibile perché non segnalato come debito pubblico e si affidano al dato della Banca d'Italia di 71 miliardi di crediti vantati dai privati verso la pubblica amministrazione.

Dato del 2011, inesorabilmente lievitato in questi due anni di recessione nera.
Tuttavia, a bene guardare nelle pieghe dei bilanci di Comuni, Province e Regioni, come ha fatto Gianni Trovati (si veda pagina 3), si scopre che solo una parte di quel debito fantasma vale, in realtà, quasi 140 miliardi di euro, escludendo dal calcolo gli impegni delle amministrazioni centrali. Cifre che fanno capire come l'economia dell'Italia sia costretta a vivere a credito in uno scandaloso giro di "pagherò" che ha come primo motore proprio lo Stato. Ai tragici colpi della crisi calati con estrema durezza sulla domanda interna e sui consumi, si devono quindi aggiungere le conseguenze di un fenomeno unico in Europa, quello di un Paese che non paga e toglie al sistema economico liquidità per importi difficili persino da immaginare. Da soli, quei miliardi, basterebbero a creare investimenti, sviluppo e a generare altro credito da destinare alla ripresa. Sanità ed edilizia sono i settori più colpiti e maggiormente in sofferenza.

Nel complesso si tratta di oltre 10 punti di Pil, un'enormità. Se la finzione giuridica del debito fantasma assumesse i contorni crudi delle poste contabili l'Italia non avrebbe scampo e il pareggio di bilancio, che l'Italia primo della classe vorrebbe raggiungere entro l'anno, si dimostrerebbe a dir poco velleitario.
La correzione del ciclo economico ai fini del calcolo del deficit valevole per il verdetto Ue è un fatto acquisito. Ma non basterebbe certo a creare lo "spazio contabile" per la montagna del debito fantasma.
È evidente che l'Italia deve tornare a Bruxelles e porre prima, e risolvere poi, il problema. L'entità delle somme in gioco deve indurre chi avrà responsabilità di Governo a considerare la questione al centro dell'agenda della politica economica. Senza ipocrisie e senza rinvii tartufeschi. Ma con realismo e un orizzonte pluriennale.
Del resto, che il giogo del patto di stabilità interno imposto dallo Stato agli Enti locali stia producendo altre distorsioni al sistema di gestione della liquidità è noto. Se non ci fossero problemi di rispetto degli obblighi di "stretta contabile" le amministrazioni locali virtuose potrebbero da subito sbloccare almeno 10-15 miliardi di pagamenti per altrettante opere già cantierate. E l'economia tutta potrebbe almeno respirare.

Sono temi che il Governo italiano dovrà portare al tavolo di Bruxelles con serietà e autorevolezza. Del resto, come è scritto nel Piano per il Paese presentato dalla Confindustria, anche il pagamento di soli 48 miliardi dei tanti debiti che lo Stato ha verso i suoi fornitori potrebbe mobilitare altri 7,7 miliardi di investimenti che in un triennio lieviterebbero ad almeno 10,4 miliardi.
Insomma, l'economia potrebbe ripartire. E, probabilmente, anche il credito. Al contrario, fino a quando l'economia sarà stritolata dalla morsa letale dei mancati pagamenti dello Stato e delle mancate erogazioni di linee di credito da parte delle banche (nel solo 2012 sono mancati all'appello ben 39 miliardi di erogazioni alle imprese), l'uscita dalla recessione per l'Italia sarà sempre più lontana. Verrebbe da dire: tecnicamente impossibile. È per questo che servirà un miracolo di alta politica. Anche perché la priorità resta quella di abbassare le tasse su lavoro e imprese.

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