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Questo articolo è stato pubblicato il 20 febbraio 2013 alle ore 13:28.

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Ken Follett, Anthony Hopkins e Richard BurtonKen Follett, Anthony Hopkins e Richard Burton


Le partite di rugby del Galles, per noi gallesi "expat", ovvero cittadini del Principato che vivono lontano da casa, sono sempre un'occasione di ricordi, di orgoglio (quando si vince!) e di nostalgia.
Rugby per me significa i pomeriggi della mia infanzia, la tele accesa sulle imprese di Gareth Edwards, Phil Bennett, JPR Williams, Mervyn Davies, la prima linea di Pontypool ("The Pontypool front row"), una marchio di fabbrica che persino Max Boyce - un "Elio" gallese - le ha dedicato una canzone.
Rugby in Galles è quello che per voi è la finale della Coppa del mondo di calcio. Per noi lo è ogni volta che gioca la Nazionale. E siccome nessuno sa che Richard Burton, Ken Follett, Anthony Hopkins sono gallesi, per dire i più famosi, mentre tutti sanno che giochiamo a rugby (anche il fornaio sotto casa, e le mie colleghe insegnanti me lo ricordano quando vinciamo qualcosa, e anche quando perdiamo!), per noi la palla ovale resta un momento importante di identità. Mentre per voi italiani è uno dei tanti sport, insieme allo sci, al basket, alla pallavolo etc.
Devo dire la verità, quando sono venuta in Italia, alla fine degli anni Ottanta, non sapevo, non sospettavo neppure, che da voi, qui, si giocasse a rugby. Non avevo mai sentito parlare di una Nazionale italiana e non avrei saputo citare nemmeno un giocatore. Ero stata in Francia, qualche volta, con un programma di scambio culturale scolastico, e l'amica che mi ospitava aveva uno zio che faceva il medico della squadra di rugby francese. Quindi anche a casa sua si accendeva la Tv per guardare il Cinque Nazioni e vedere, di tanto in tanto, quella figura familiare, che anch'io avevo incontrato, trottare in campo per assistere un giocatore infortunato. Ma la Francia, lo sapevamo, era una nazione del rugby. L'Italia per me era il Paese dove la domenica pomeriggio la gente passeggiava con la fidanzata sotto il braccio e la radiolina all'orecchio, per seguire le partite di calcio. E dove a scuola i ragazzini frequentano tristi ore di educazione fisica in palestra senza neppure cambiarsi d'abito tra una lezione e l'altra. Da noi, in Galles, spesso gli studenti, durante l'orario delle lezioni, andavamo in campo e giocavano a rugby, sotto la pioggia, nel fango, poi prima di tornate in classe erano obbligati a farsi la
doccia. Per esserne esentati dovevano avere un certificato medico che dicesse che erano malati, molto malati. Sennò la doccia era un must. Ecco perché non mi stupivo che in Italia, nelle scuole senza un campo di gioco, senza un prato, senza spazi per lo sport, non si giocasse a rugby.
Poi è arrivato il Sei Nazioni e a casa mia, con mio marito che è un giornalista che si occupa di rugby quasi a tempo pieno (e dice di essere stato un giocatore, anche se io non l'ho mai visto giocare…), questo sport è diventato una presenza fissa nella nostra vita quotidiana. Gli stranieri della zona, anglosassoni di varia estrazione, compreso l'ex ct azzurro Nick Mallett, quando abitava a Salò, o Lynn Howells, quando allenava la Leonessa, sono diventati frequentatori abituali della nostra casa e il rugby un argomento di conversazione frequente. Tuttavia io continuo a pensare che il Galles abbia uno spessore e una tradizione che voi non potete nemmeno immaginare, anche se ci avete battuto un paio di volte. Per me si è trattato di due "incidenti di percorso". Sperando che non si ripetano di più. Permettemi pertanto di dire anche stavolta "Cymru am byth", forza Galles!

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