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Questo articolo è stato pubblicato il 24 febbraio 2013 alle ore 09:30.

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Il paragone fra le scelte compiute da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI davanti al venir meno delle loro forze fisiche, è stato avanzato da più parti, talvolta soltanto per immaginare una contrapposizione e ipotizzare retroterra inquietanti. In realtà, l'accostamento fra i due Papi, figure dall'evidente diversità e dalla non meno profonda sintonia, può risultare particolarmente fecondo nell'aiutare a comprendere ciò che sta avvenendo al vertice della Chiesa cattolica e il suo possibile significato per il prossimo futuro. La chiave di lettura più adeguata per interpretare il modo di porsi davanti alla malattia, alla sofferenza e alla morte del Papa polacco, è la mistica slava della Croce.
Avendo avuto il singolare privilegio di predicare a Giovanni Paolo II gli ultimi esercizi spirituali cui egli abbia potuto partecipare, ho avuto anche modo di ascoltare dalle sue labbra parole che restano scolpite nella mia memoria e nel cuore: «Il Papa deve soffrire per la Chiesa». Ciò che mi colpì fu l'intensità con cui le diceva, in particolare la forza posta su quel "deve".

I Vangeli, d'altra parte, testimoniano che davanti alla sua passione Gesù usò parole simili. Si legge in Marco: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto…» (8,31). E nel racconto di Luca il Maestro dice: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire…» (9,22). La cristianità slava si riconosce particolarmente in questo destino, connesso alla sequela di Cristo. Essa sa di essere stata generata nel segno della Croce: «Nella comunità dei popoli europei - scrive P. Tomas Spidlik -, gli slavi ricevettero il battesimo come operai dell'ultima ora. Ciò nonostante, il sangue dovette bagnare i nuovi campi seminati dal Vangelo… Perciò i pensatori slavi si sono sempre soffermati a indagare sul vero senso del dolore». Per essi, «la sofferenza è una grande forza, perché santifica non soltanto gli innocenti, ma anche coloro che hanno peccato e accettano che il "castigo" sani il "delitto"».

Nicolaj Berdiaev non esita ad affermare: «L'intensità con la quale si sente la sofferenza può essere considerata come un indice della profondità dell'uomo. Soffro, quindi sono». E Boris Pasternak chiude il suo romanzo Il Dottor Zivago con queste parole: «L'anima è triste fino alla morte... Eppure il libro della vita è giunto alla pagina più preziosa… Ora deve compiersi ciò che fu scritto. Lascia dunque che si compia. Amen». In questa luce, non meraviglia che il Papa slavo comprendesse la sua missione come martirio, e che abbia voluto proclamare dalla cattedra del vissuto ciò che aveva insegnato con la parola e gli scritti: quanto era detto nella sua lettera apostolica Salvifici doloris dell'11 Febbraio 1984 sul senso incomparabile della sofferenza offerta per amore, Giovanni Paolo II lo proclama al mondo con l'eloquenza silenziosa della sua passione, fino a quel gesto muto di dolore, compiuto spontaneamente quando - affacciato alla finestra su una Piazza San Pietro gremita di folla silenziosa - non poté dire più alcuna parola.

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