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Questo articolo è stato pubblicato il 27 febbraio 2013 alle ore 07:15.

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È arrivato ieri sotto casa di Beppe Grillo con il suo Ape con su scritto "Forza Beppe". Un piccolo imprenditore edile ligure. Ha chiesto di parlare con il leader di quello che era appena diventato il primo partito d'Italia. Per chiedere aiuto. E per spiegare che il suo voto, il voto a Grillo, è un voto di «protesta» e «disperazione».
C'è anche, forse soprattutto, questo nelle elezioni che hanno stupito ieri l'Italia e l'Europa. C'è un Paese in sofferenza, famiglie che vivono il momento peggiore della crisi, lavoratori e imprenditori che non vedono più un proprio percorso, giovani che hanno rinunciato al futuro. E la sofferenza viene scagliata nelle urne contro i partiti, vecchi e nuovi, che sono stati al governo in questi anni e che ora, a torto o a ragione, vengono ritenuti responsabili delle difficoltà.

È la crisi dell'economia reale che domenica e lunedì è entrata nei seggi. È il Paese esausto, senza crescita da dieci anni, con la sua disoccupazione giovanile ben oltre il 30%, le ansie di chi il lavoro teme di perderlo e con i suoi imprenditori stritolati tra un credito che non c'è e un fisco sempre più oppressivo. È l'urgenza della realtà che ha votato, contro la campagna elettorale delle futili promesse.
L'esito è stato quello che è stato. Con un Parlamento frammentato e ingovernabile. Che appare, paradossalmente, il più inadeguato ad affrontare con efficacia quell'urgenza. Era lo scenario peggiore che veniva prefigurato dagli analisti e infatti i mercati non ci hanno dato tempo: la sanzione è stata immediata con lo spread schizzato vicino a quota 350.

Improvvisamente ci siamo ritrovati ad essere un pericolo incombente per l'euro e una minaccia per la stabilità dell'area. È vero che questa volta c'è una consapevolezza nuova, in Europa, sulle reponsabilità comuni di questa situazione: una presa d'atto dei ritardi europei sul tema della crescita e dell'esigenza di favorire finalmente politiche più espansive. Ma ancora una volta nessuno ci farà sconti. E deve essere chiaro a tutti che non possiamo permetterci di restare a lungo in questa situazione di incertezza. Non (solo) per i mercati. Ma per quella sofferenza, quella malattia dell'economia reale che chiede risposte urgenti e in grado di incidere davvero.

Il decreto di indizione dei comizi elettorali prevede l'insediamento delle Camere per il 15 marzo, poi verranno le verifiche delle giunte, l'elezione dei presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, quindi le consultazioni e solo dopo potremo sapere se l'Italia avrà un governo e che tipo di governo sarà. Sono tempi troppo lunghi. Non c'è ragione per non anticipare, con un decreto ad hoc, la convocazione delle Camere. Ma, soprattutto, bisogna lavorare senza incertezze, con rapidità e trasparenza, alla formazione di un governo che sia in grado di trovare una sua maggioranza in Parlamento sugli interventi più urgenti per affrontare le emergenze economiche e sociali del Paese.

Pochi punti. Un programma limitato. Con il realismo che non può non contraddistinguere questa fase politica e con la consapevolezza di avere davanti a sé tempi necessariamente limitati. E quindi: lavoro, investimenti, produzione. Cominciando dal dare un po' di spinta agli investimenti, con l'alleggerimento dei vincoli del Patto di stabilità interno per i Comuni virtuosi e magari con la soppressione di quella incomprensibile soglia a 500 milioni per il credito d'imposta per i progetti in partnership pubblico-privata. Interventi su cui non sarebbe certo difficile trovare un'ampia maggioranza in Parlamento.

Va ricordato, poi, che i 100 miliardi di debito dello Stato con i suoi fornitori sono uno scandalo non più tollerabile. Sbloccarne una quota significativa significherebbe dare una boccata d'ossigeno alle tante imprese in crisi di liquidità. Anche su questo non dovrebbe essere un problema trovare i voti alle Camere. E poi il costo del lavoro. In campagna elettorale erano tutti d'accordo: la pressione fiscale che insiste sulle buste paga, e che frena competitività e occupazione, va progressivamente alleggerita, a cominciare dall'Irap e dai salari di produttività. Altrettanto condiviso il credito di imposta sugli investimenti in ricerca e innovazione.

Non c'è ragione per non ipotizzare convergenze parlamentari su tutto questo. Senza dimenticare la riduzione dei costi della politica, la legge sulla corruzione, che va rafforzata e migliorata, e la riforma della legge elettorale. Necessaria, quest'ultima, a riportare il Paese in tempi medi alle urne, con la ragionevole speranza di dar vita a maggioranze politiche finalmente solide e durature.
In attesa di quelle maggioranze, però, è un dovere delle forze politiche uscite da queste urne cercare di costruire quella governabilità minima che serve al Paese. È l'urgenza della realtà a chiederlo. L'emergenza di un'economia reale che chiede ed esige ascolto, anche attraverso questo voto un po' strambo di «protesta» e di «disperazione».

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