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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2013 alle ore 10:30.

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La gente mi chiede quale sia la mia posizione sulla questione della guerra delle valute. Tutto si basa su un equivoco e sarebbe una pessima cosa se le autorità dovessero prendere sul serio la faccenda.

Per cominciare, quello che la gente pensa di sapere sulle guerre valutarie del passato in realtà è falso. Tutti usano un'espressione del genere «protezionismo e svalutazione competitiva» per descrivere il presunto circolo vizioso degli anni 30, ma come ha fatto notare Barry Eichengreen, questi due concetti sono in contraddizione fra loro. Se il Paese A e il Paese B si lanciano in una guerra di dazi e controdazi, il risultato finale è una restrizione degli scambi commerciali; se cercano entrambi di far scendere il valore della propria moneta, il risultato finale, nella peggiore delle ipotesi, è che tutti e due tornano al punto di partenza.

Le guerre valutarie quasi sicuramente rappresentano un vantaggio per l'economia mondiale. Negli anni 30 furono un vantaggio perché i Paesi si scrostarono di dosso la "doratura", abbandonando il gold standard per essere liberi di perseguire politiche di espansione monetaria. Oggi non è questo il problema: Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna stanno cercando di portare avanti una politica di espansione monetaria, con la svalutazione della moneta come effetto collaterale.
Una politica di espansione monetaria è quello di cui il mondo ha bisogno, che motivo c'è di vederla come un male? L'Europa rischia di subire una perdita di competitività. Ma ha una risposta a disposizione: emulare gli altri Paesi avanzati e convincere la Bce a intraprendere misure di espansione.

Anzi, se il timore di un euro troppo forte finisse per tagliare l'erba sotto i piedi ai falchi della Bce, sarebbe un bene per tutti. Se si parla di svalutazione della moneta, oggi, l'unica cosa di cui aver paura è la paura stessa.
Su entrambe le sponde dell'Atlantico, gli "austerofili" sembrano in preda al panico. È una buona notizia: è il segnale che si stanno rendendo conto di stare perdendo il dibattito.

Partiamo dalla storia del presentatore televisivo Joe Scarborough, che in risposta alla mia partecipazione anti-austerity al suo show ha scatenato una bizzarra campagna per convincere il mondo che nessuno di anche lontanamente importante condivide le mie idee. Perché bizzarra? Perché sull'analisi macroeconomica potrei anche essere nel torto (ma non lo sono), ma è falso, ed è comprovato dai fatti, che sia il solo a sostenere che il deficit, oggi e nel prossimo futuro, non rappresenta un problema.

Gli sviluppi vedono Scarborough ridotto a citare un articolo scritto a gennaio dal mio collega Alan Blinder, in netto contrasto con le mie posizioni a detta di Scarborough. L'articolo che cita, pubblicato sul The Atlantic, reca il seguente titolo: «Il modo giusto per preoccuparsi del deficit: non preoccuparsene; aspettare qualche anno; a quel punto preoccuparsi della spesa sanitaria».

Non mi sembra così diverso da quello che dico io. Intanto, Olli Rehn, vicepresidente della Commissione europea e fiero paladino del rigore, ha scritto una lettera ai ministri dell'Economia in seguito alle disastrose notizie sull'economia europea, che hanno confermato l'allarme dei contestatori dell'austerity e indotto a rivedere i moltiplicatori della spesa pubblica, troppo elevati in una situazione di trappola della liquidità. La risposta di Rehn? Dobbiamo smettere di diffondere questi studi economici, perché compromettono la fiducia nel rigore!
Come ho detto, questi segnali di disperazione sono gratificanti. Il problema è che questa gente ha già fatto danni enormi ed è ancora nelle condizioni per continuare a farli.

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