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Questo articolo è stato pubblicato il 05 marzo 2013 alle ore 12:47.

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DOHA - Al tramonto, poco dopo la chiusura al pubblico, il convoglio di auto si avvicina all'ingresso del Museo di arte islamica, sulla corniche. Piuttosto piccolo e poco militarizzato, considerando la curiosità, le passioni e spesso le ostilità suscitate dall'uomo che le poche guardie del corpo devono proteggere.

Mai un Paese così piccolo come il Qatar ha determinato in modo così imponente la geopolitica delle rivoluzioni arabe, il mercato mondiale del gas, l'interesse globale per il fondo sovrano più attivo della regione. Partendo 15 anni fa da un'irrilevanza assoluta.
L'emiro Hamad bin Khalifa al Thani, 61 anni, scende dall'auto. C'è la moglie Sheikha Mozah, che interpreta un ruolo creativo da first lady, inesistente prima di lei nel mondo arabo; e c'è Sheikha al Massaya, una dei loro sette figli, presidente del Qatar Museums Authority, considerata "la donna più potente dell'arte mondiale".

La moglie, i figli, i musei sono parte della stessa aspirazione all'eccezionalismo che ha spinto il Qatar a diventare il primo produttore di gas naturale liquido (77 milioni di tonnellate l'anno); a conquistare i mondiali di calcio del 2022, candidarsi per le Olimpiadi del 2020, creare il più grande campus universitario della regione, gli ospedali dalla ricerca più avanzata, un fondo sovrano con un portfolio d'investimenti all'estero da 100 miliardi di dollari e un piano di spesa da 30 solo nel 2012. Oltre a tentare di ridisegnare la carta politica del Medio Oriente. "Stiamo lavorando bene. Dicono che se oggi smettessimo di produrre gas e chiudessimo il fondo, il Qatar resterebbe ricco per altri 70 anni", dice l'emiro. Sorridendo, evidentemente.

La ragione della visita al museo è una mostra sui rapporti fra Oriente e Occidente nel XVII secolo. Spiega come le scoperte scientifiche, mediche e culturali del Medio Oriente arrivarono in Europa: dall'astrolabio all'immunizzazione, dal caffè agli arabeschi, in un trasferimento tecnologico e di costumi a senso unico e senza precedenti. "Secoli, noi arabi abbiamo perduto secoli", riflette l'emiro leggendo la lettera di Carlo II, nella quale il re d'Inghilterra esorta i mercanti della Compagnia del Levante a impossessarsi del maggior numero possibile di manoscritti arabi, come quattro secoli più tardi le economie in via di sviluppo avrebbero fatto con i microchip di Silicon Valley. "Dobbiamo crescere, tornare al vertice dello sviluppo scientifico, come quattro secoli fa".

È l'angst di Hamad al Thani, un'ansia di modernità che aiuta a spiegare perché un Paese così piccolo, ricchissimo e senza storia ("cento anni fa qui eravamo come i talebani") pretenda di essere così tanto nella mappa mondiale, fino a portarne al centro una forma di "arabità" diversa dal panarabismo delle rivoluzioni ideologiche passate. O forse è un delitto di hubris, una pericolosa sfida agli dei, come invece avrebbero detto i greci antichi.

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