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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2013 alle ore 07:45.

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L'incertezza del quadro politico non consente di escludere del tutto la necessità di nuove correzioni di rotta nei conti pubblici. Ma c'è una certezza: una nuova azione fiscale su imprese e lavoro condurrebbe l'economia al collasso invece di farla uscire dal lungo stato di "glaciazione" in cui l'ha confinata questa infinita stagione di recessione.
Il 2013 porterà, nella seconda parte del l'anno, l'amara dote di nuove tasse – su imprese e famiglie – per quasi 5 miliardi.

L'effetto dell'aumento dei coefficienti per il calcolo Imu sugli immobili strumentali, l'incremento dell'Iva dal 21 al 22% per l'aliquota ordinaria, il ritocco verso l'alto della Tares creeranno un ulteriore effetto-frustrazione per una platea di soggetti su cui ancora si abbattono i colpi beffardi di una crisi inimaginabile e una pressione fiscale tra le più alte del mondo (45%). Per le imprese, non c'è solo lo spiazzamento competitivo nei settori dove la concorrenza di prezzo dei Paesi emergenti diventa imbattibile fino a sconfinare del dumping (come è nel tessile o in alcune produzioni dell'elettronica di base). Non c'è solo l'effetto odioso di uno Stato pessimo pagatore che non consente di far affluire al sistema produttivo un centinaio di miliardi di crediti vantati da imprese che hanno già realizzato lavori o servizi senza essere state pagate; una pratica scandalosa che spesso costringe le aziende più piccole a portare i libri in tribunale per avendo gestioni industriali sane ma vanificate da un gigantesco cliente insolvente (lo Stato).

C'è anche la sconfortante certezza che se l'impatto delle imposte sulla parte più dinamica del Paese fosse più lieve si avrebbe un benefico effetto rimbalzo sull'andamento stesso del prodotto. Sono inoppugnabili le conclusioni di un recentissimo studio Mediobanca-Unioncamere-Confindustria sugli impatti fiscali nei confronti delle piccole imprese: se nel periodo 2001-2009 avessimo applicato in Italia il paradigma fiscale della Germania avremmo rimesso in circolo 13,4 miliardi che sarebbero saliti a 15,4 se avessimo applicato il sistema francese e ben 16,1 se avessimo adottato quello spagnolo. Sistemi che hanno da sempre un atteggiamento di fiscalità proattiva per lo sviluppo e di fiducia nella capacità delle imprese, soprattutto piccole, di essere motore di sviluppo e di aumento del prodotto interno.

È questo il coraggio della politica: decidere che il risanamento dei conti, il famoso rigore, si può raggiungere anche attraverso le "politiche del denominatore", vale a dire attraverso azioni mirate alla crescita del Pil e dunque concentrare sulla parte del Paese in grado di generare ricchezza e sviluppo. Aumentando questa variabile naturalmente diminuirebbe anche il fatidico parametro del rapporto tra deficit e Pil e tra debito e Pil, ormai vera ossessione di ogni governante soprattutto quando debba gestire la dialettica interna agli Stati dell'Europa. Tuttavia proprio dall'Europa è arrivato il segnale che un cambio di passo è possibile. Spetta a chi ha le leve della politica economica creare la discontinuità necessaria. E, naturalmente, serve un Governo. Pur in una legislatura nata male, il prossimo Governo – qualunque esso sia – non potrà non farsi carico di una diversa politica di sviluppo oltre alle priorità etico-istituzionali diventate argomento centrale delle legislatura. Il vero segno di novità sarebbe proprio nella doppia scelta per lo sblocco dei pagamenti verso i fornitori della publbica amministrazione e per l'abbattimento della pressione fiscale su imprese e lavoro.

D'altro canto, che i moltiplicatori fiscali abbiano agito ben oltre il prevedibile aumentando l'effetto distruttivo della recessione è un fatto assodato anche grazie al mea culpa recitato dagli economisti del Fondo monetario. Ma c'è una ulteriore prova empirica e più micro: con l'aumento dell'Iva dal 20 al 21% nel 2012 il gettito è calato di due miliardi. Probabilmente è un effetto più generale del ciclo economico, una fuga nel sommerso, una conseguenza psicologica nel contenimento dei consumi. Ma è chiaro che se ad aumenti delle aliquote della tassazione indiretta non corrispondono diminuzioni della pressione fiscale diretta su imprese e lavoro il sistema non trova un equilibrio virtuoso indirizzato alla creazione di valore e di sviluppo.
È la triste lezione di questa fase difficile. Il cocktail fiscale sbagliato può avvelenare un intero Paese e indurlo alla paralisi: dal 2002 al 2011 (dato Madiobanca Unioncamere) le piccole imprese hanno avuto un ritorno sugli investimenti praticamente invariato che sarebbe cresciuto dell'11% e oltre se le Pmi non avessere dovuto pagare l'Irap. Probabilmente il Paese ne avrebbe guadagnato in occupazione, in ricchezza creata, in consumi e in tassazione indiretta. Non è solo un esercizio statistico. È la dimostrazione che la politica ormai deve fare come gli imprenditori migliori: investire quando il momento sembra meno favorevole e quando la scelta sembra più temeraria. È questa la grande scommessa di chi crede nel futuro e vuole contribuire a costruirlo.

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