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Questo articolo è stato pubblicato il 18 marzo 2013 alle ore 12:40.

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Per aver votato in coscienza si sono guadagnati la reprimenda stizzita del Capo. Ma in concreto, contro i senatori dissidenti, poco o niente si potrà fare. E questo per un insieme articolato di norme presenti nell'ordinamento italiano sin dalla nascita della Repubblica.

Libertà del mandato parlamentare
Cominciamo dai presunti vincoli al parlamentare eletto. Intervenendo nell'immediatezza del voto che ha portato Pietro Grasso sullo scranno più alto di Palazzo Madama, Grillo scrive sul suo blog che è mancata la trasparenza. «Il voto segreto non ha senso, l'eletto deve rispondere delle sue azioni ai cittadini con un voto palese. Se questo è vero in generale, per il MoVimento 5 Stelle, che fa della trasparenza uno dei suoi punti cardinali, vale ancora di più». Nel nostro sistema costituzionale il parlamentare è libero nell'esercizio delle sue funzioni. L'articolo 67 della Costituzione vieta infatti il cosiddetto «mandato imperativo», disponendo che il parlamentare rappresenti la nazione e non possa ricevere alcun "procura" da parte di soggetti esterni al Parlamento. A ciò si aggiunge quanto stabilisce l'articolo 68, secondo cui i parlamentari non possono essere chiamati a rispondere, in giudizio, dei voti dati e delle opinioni espresse in ossequio alla funzione. «Il combinato disposto di questi due articoli rappresenta la maggior garanzia possibile per un parlamentare: chiunque lo abbia "mandato" in Parlamento, non può in alcun modo guidarlo o indicargli come votare o cosa pensare» spiega Pier Luigi Petrillo, docente di diritto e procedura parlamentare all'Università Unitelma Sapienza di Roma. Recependo questo principio, i regolamenti di Camera e Senato hanno introdotto norme di salvaguardia per il deputato dissenziente. Che peraltro sono di maggior favore al Senato rispetto alla Camera.

La permanenza nel gruppo
Ma veniamo ora a ciò cui possono andare incontro i senatori che non hanno rispettato la linea. Come si vedrà, seguendo la procedura in via di completamento, i margini appaiono assai stretti. Eletti i presidenti delle Camere, entro due giorni alla Camera ed entro tre in Senato, ciascun parlamentare dovrà comunicare alla presidenza a quale gruppo intende aderire. Entro sette giorni dalla prima seduta, il regolamento del Senato (articolo 15) dispone che il presidente convochi, per ciascun gruppo, i senatori che hanno dichiarato di farne parte. Il primo adempimento del gruppo così costituito è l'elezione del presidente del gruppo stesso. I regolamenti parlamentari non dicono come tale elezione deve avvenire: «Vale, però, il più generale principio democratico, desumibile dall'articolo 49 della Costituzione, e che deve essere interpretato nel senso di assicurare la democraticità all'interno dei gruppi: ne consegue che il presidente del gruppo sarà eletto a maggioranza dei suoi componenti» evidenzia Petrillo. «Ciascun gruppo potrà decidere le concrete modalità di elezione, ovvero se con voto palese o con voto segreto o per acclamazione». A questo punto il presidente compila l'elenco dei senatori che fanno parte del gruppo. Già in questa prima fase, nel caso del M5S, il presidente del gruppo potrebbe non includere nella lista i senatori che hanno votato per Grasso. Una volta compilato, l'elenco dei compomenti viene trasmesso al presidente dell'Assemblea. Secondo adempimento del gruppo è poi l'approvazione, sempre a maggioranza, dello Statuto o del regolamento interno nonché, se lo si vuole, l'elezione di vicepresidenti e segretari. E qui si arriva al punto. In ossequio al principio costituzionale della libertà di mandato, i regolamenti di Camera e Senato assicurano l'assoluta libertà al parlamentare che può votare in dissenso rispetto al proprio gruppo. I regolamenti riservano tempi e spazi all'interno del dibattito proprio al parlamentare che vota o esprime opinioni in dissenso rispetto alla linea definita dal gruppo (articoli 84, comma 1, e 109 del regolamento del Senato). Ancora di più: nel dibattito parlamentare, i tempi sono contingentati ovvero a ciascun gruppo è attribuito un massimo di ore da utilizzare per l'espressione della propria posizione. L'intervento del dissenziente non è mai computato in tale limite orario, il che conferma la posizione di assoluto favore che l'ordinamento costituzionale e parlamentare riconosce a chi esprime una posizione libera dal proprio gruppo (come ribadito dalla Corte costituzionale fin dalla sentenza n. 14/1964).

Dimissioni solo con il via libera dell'Assemblea
«Peraltro in Senato, a differenza che alla Camera, l'articolo 53, comma 7, del regolamento tutela maggiormente le posizioni di minoranza interne a un gruppo, prevedendo che lo Statuto stabilisca procedure e forme di partecipazione che consentano ai singoli senatori di esprimere comunque i loro orientamenti», avverte ancora Petrillo. Tale disposizione - introdotta nel 1988 nel regolamento del Senato e che fino ad ora non è stata mai oggetto di richiamo da parte di un senatore - consentirebbe agli eletti maggiore autonomia anche all'interno del gruppo parlamentare stesso. Dunque, l'unico potere "sanzionatorio" in mano al gruppo nei confronti del parlamentare che reitera il proprio dissenso è l'espulsione. In questo caso il parlamentare confluisce automaticamente nel gruppo misto, fino a quando non dichiara di appartenere ad altro gruppo. E se il parlamentare, colpito "moralmente" da tale scelta, decide di lasciare, allora le dimissioni per essere effettive devono essere votate a maggioranza semplice dall'Assemblea: un parlamentare, infatti, non può lasciare l'incarico se non con il consenso della maggioranza dei componenti l'Assemblea. «Questa - conclude Petrillo - è una ulteriore conferma della sua indipendenza e della sua assoluta autonomia rispetto sia al gruppo cui appartiene sia al partito che lo ha eletto».

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