Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 21 marzo 2013 alle ore 07:09.
L'ultima modifica è del 21 marzo 2013 alle ore 07:12.

My24
Pierluigi Bersani (LaPresse)Pierluigi Bersani (LaPresse)

Lo scenario è in evoluzione. Fino a tre giorni fa Bersani era determinato a procedere lungo la via del «governo del cambiamento»: in modo più che legittimo, vedeva se stesso come il leader del partito di maggioranza relativa, quindi il più titolato a raccogliere intorno alla sua proposta un sufficiente consenso parlamentare. È la tesi che ancora ieri Nichi Vendola rilanciava. La realtà però si sta rivelando assai più complessa. E per motivi non sempre lineari.

Diciamo che Bersani ha in mano delle carte troppo deboli per organizzare al Senato una qualsiasi maggioranza intorno a sé: inconsistente il filo con la Lega, illusoria la sponda dei "grillini" dissidenti. Al tempo stesso, dal Pdl a Monti si allarga il fronte che sarebbe favorevole, almeno sulla carta, a un esecutivo delle «larghe intese». Berlusconi lo chiama «governissimo», ma potrebbe trattarsi di un'ipotesi più blanda: magari solo il primo passo verso quell'esecutivo cosiddetto istituzionale che i giornali chiamano anche governo «del presidente».

Di fronte a questo groviglio in apparenza inestricabile, Bersani ha messo parecchia acqua nel suo vino. Non dice più «o il mio governo o niente». Affiora invece una tentazione a guadagnare tempo. Detto con una frase cortese e un po' ambigua, ad «affidarsi al capo dello Stato». Traducendo, significa che se Napolitano fra un paio di giorni decidesse di affidare un mandato esplorativo a una personalità istituzionale (e ovviamente il pensiero corre al presidente del Senato Grasso, l'uomo che sta bruciando tutte le tappe della carriera interna al palazzo), Bersani potrebbe trarre un sospiro di sollievo.

Naturalmente il segretario del Pd negherà di essersi sottratto al mandato che in precedenza aveva rivendicato con foga. Dirà che si tratta di una scelta del presidente della Repubblica, come accadde con Franco Marini nel 2008. Tuttavia a questo punto la questione è duplice. Primo, nel colloquio che avrà oggi con Bersani, il capo dello Stato avrà tutto il diritto di esigere chiarezza sulle intenzioni politiche del leader di maggioranza. Secondo, ci si deve domandare se perdere tempo servirebbe a qualcosa. Oggi proprio i due presidenti delle Camere hanno detto che è «urgente dare un governo al paese». Questa è la priorità e i due neoeletti riflettevano alla perfezione il pensiero di Napolitano. Ne deriva che, se Bersani non si ritiene in grado di assumere l'incarico, il percorso immaginato dal Quirinale potrebbe volgersi subito verso l'ipotesi di un governo istituzionale. Affidato a una figura neutra, forse in grado di formare un esecutivo – garantito dal capo dello Stato – fondato su pochi, essenziali punti programmatici (il governo «di scopo»).

È questo che il Pd è disposto ad accettare? Al momento non si direbbe, almeno non al prezzo di una sconfitta politica. Ed è qui che la matassa s'ingarbuglia. Nel partito di Bersani c'è una pericolosa, benché minoritaria, tendenza a scaricare sul Quirinale la tensione indotta da un rebus irrisolvibile, che forse era stato sottovalutato. Si ritiene che il problema sia Napolitano e non il sostanziale isolamento del partito. Si vuol credere che la soluzione sia quella di affrettare i tempi della successione presidenziale (ma non si può, salvo dimissioni dell'interessato). E si disegna l'identikit del prossimo presidente, nella segreta speranza che sia più conciliante dell'attuale. Soprattutto meno propenso a immaginare esecutivi istituzionali o di «larghe intese».

Se questa è la strada, il Pd rischia di trovarsi chiuso in un vicolo cieco. Sarà difficile dire «no» a un governo del presidente che nasca prima della metà di aprile. O dare l'impressione di boicottarlo quando l'Italia ha bisogno di scelte chiare. Ma sarà ancora più spiacevole far uscire allo scoperto la frizione con il presidente uscente.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Shopping24

Dai nostri archivi