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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2013 alle ore 08:35.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2013 alle ore 10:09.

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Un passaggio politico fra i più oscuri ha trovato ieri sera un Napolitano che ne ha illuminato gli angoli con un puntiglio di cui ci sono pochi precedenti nelle cronache quirinalesche. Dopo giorni abbastanza confusi, tutti hanno potuto capire con dovizia di dettagli quali sono i limiti e il profilo dell'incarico (o meglio pre-incarico) affidato al segretario del Pd in quanto leader della coalizione di maggioranza relativa. Un leader che arriva provato, ma non rassegnato, alla meta. Forse perché i numeri elettorali sono deludenti: abbastanza buoni per rivendicare il diritto di provare, non sufficienti però a garantirgli il successo.
I governi nascono con il voto di fiducia in Parlamento, ha spiegato con fare pedagogico il presidente della Repubblica. E per la verità Bersani oggi non sembra avere molte frecce al suo arco. La maggioranza certa richiesta dal Quirinale è piuttosto una chimera. Ne è consapevole, il segretario del Pd? Non è facile dirlo. In ogni caso si è conquistato l'autorizzazione a guardare le carte e tirare le somme. Certo, il proposito di cominciare le consultazioni con le parti sociali è un segnale ambivalente. Nel senso che da sindacati e imprenditori il presidente pre-incaricato apprenderà quello che senza dubbio già conosce: e cioè che la situazione economica del paese è drammatica. E che all'Italia serve un governo in grado di attuare misure straordinarie per il lavoro e le imprese.
Il problema è che per dare forma a questo governo bisogna sciogliere senza perdere tempo nodi politici in apparenza irrisolvibili. Se ha un'idea in proposito, Bersani dovrà presto metterla sul tavolo: perché il tempo a sua disposizione non è illimitato, come Napolitano gli ha fatto intendere senza mezzi termini.

Diciamo che entro la metà della prossima settimana, e comunque prima di Pasqua, il pre-incaricato dovrà tornare al Quirinale con una risposta in tasca.
E dunque quello che davvero interessa, a partire da oggi o domani, saranno i contatti e i colloqui con i vari soggetti politici. Specie quelli di confine, da cui in teoria potrebbe venire qualche consenso (la Lega, i gruppi minori, tutti coloro che sentono il richiamo alla «responsabilità»). Ma si corre sul filo dello scetticismo. È come se Bersani avesse cominciato una gara il cui risultato è già scritto sul tabellone. Può ribaltare la realtà avversa, ma gli occorre una novità, una moneta di scambio. Uno soffio di vento per uscire dalle secche e veleggiare in mare aperto.
Per essere chiari, la condizione del pre-incaricato si può riassumere così. Il suo interlocutore privilegiato, il movimento Cinque Stelle, non sembra avere alcuna intenzione di dargli una mano. Grillo si considera un avversario storico di Bersani e i suoi seguaci insistono nel porre la questione dei rimborsi elettorali come premessa di qualsiasi negoziato (peraltro da trasmettere in diretta "streaming").
Poi c'è Monti, il cui appoggio è nell'ordine delle cose prevedibili. E infine ci sono Berlusconi e il Pdl. Il presidente della Repubblica ha lasciato capire in una forma esplicita che la grande coalizione sarebbe la soluzione più idonea per affrontare l'emergenza e anche per mettere in cantiere le riforme istituzionali urgenti (costi della politica, snellimento operativo, tagli, nuova legge elettorale). Ma poiché tale soluzione non è a portata di mano, occorre agire come se ci si trovasse nonostante tutto in quella condizione e con analogo spirito. All'interno di una cornice di coesione nazionale che vuol dire condivisione dei provvedimenti riformatori e grande equilibrio complessivo.

Su questo terreno Bersani sembra voler procedere con cautela, ma senza troppe esitazioni. Il suo problema è non precipitare nella trappola berlusconiana (il «governissimo») che il Partito Democratico non accetterebbe: e invece fermarsi in una stazione intermedia, immaginabile come una ragnatela di misure condivise alle quali corrisponderebbe un minimo di appoggio parlamentare da parte del centrodestra, magari grazie ai leghisti di Maroni. Per Bersani questo scenario idilliaco rappresenta l'unica speranza. Anzi, data la situazione sarebbe un successo eccezionale: la differenza fra il fallimento dell'incarico e la nascita del governo Bersani. Niente larghe intese dichiarate, ma una tortuosa piattaforma a metà del guado. Qualcosa che ricorda la «strana maggioranza» che ha sostenuto Monti per più di un anno.
In questa ipotesi Bersani riuscirebbe a tenere unito il partito; e financo a riceverne l'applauso. Viceversa un insuccesso al termine del pre-incarico darebbe la stura a tutto il malcontento che nel Pd oggi cova sotto la cenere. In ogni caso è chiaro che Napolitano andrà avanti, ben deciso a giocare la partita istituzionale fino all'ultimo giorno utile. Se Bersani uscirà di scena, rinunciando saggiamente ad alimentare qualsiasi tensione con il Quirinale, il tema delle larghe intese rimarrà sul tavolo. Declinato però nella forma più neutra del «governo del presidente». Pochi punti programmatici chiari e una missione: evitare il rapido ritorno alle elezioni.

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