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Questo articolo è stato pubblicato il 23 marzo 2013 alle ore 08:32.
L'ultima modifica è del 23 marzo 2013 alle ore 10:35.

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Nella politica come nell'economia, l'"austerità" è un concetto che in Italia ritorna spesso. A volte a proposito, a volte no. In questi giorni in cui si prova ad immaginare un nuovo governo, e ora che il segretario del Pd Pierluigi Bersani è in pista con l'obiettivo di darne uno al Paese, l'austerità viaggia accompagnata ad un'altra parola-chiave molto in voga: il "cambiamento". Ma per fare che cosa?
Che la politica, e i politici con nome e cognome, siano più austeri è solo un bene. Ci portiamo sulle spalle il referendum tradito sull'abolizione del finanziamento pubblico (ma i radicali, che quel referendum proposero, non sono presenti in questo Parlamento), lo scandalo vergognoso dei rimborsi e l'altezzosa "resistenza" di moltissimi uomini politici che ha impressionato l'opinione pubblica, come testimoniato dal voto del 25 febbraio.
I nuovi presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, hanno subito dimezzato i loro compensi, rinunciato agli appartamenti di servizio, ridotto le scorte. Decisione opportuna, ancorché abbiano dato, nitida, anche l'impressione di rincorrere il consenso del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. E in ogni caso, particolare non irrilevante, hanno dimostrato che qualcosa, su questo terreno sensibile, i Presidenti dei due rami del Parlamento potevano farlo. In concreto, e personalmente.
Diverso il caso dell'austerità nella politica economica. Qui il discorso si biforca. Se intesa, nel quadro degli impegni presi con l'Europa su deficit e debito pubblici, come correzione delle tendenze ad allargare peso (siamo ad oltre il 50% del Prodotto interno lordo) e perimetro della spesa pubblica, in particolare quella corrente, questa non può che essere benvenuta.

Se invece significa un aggiustamento "rigorista" fondato quasi esclusivamente, e per troppo tempo, su un fortissimo giro di vite fiscale, per un sistema già in recessione, in debito di liquidità e d'ossigeno creditizio e sull'orlo di una deindustrializzazione, il contraccolpo negativo su consumi, domanda e redditi sarà ancora più forte. Come è accaduto nei fatti, anche in contraddizione col «risanamento amico della crescita» affermato dal Consiglio europeo di giugno 2012.
Si tratta insomma di intendersi su cosa bisogna essere "austeri". Lo stesso teorizzatore dell'austerità come scelta sociale di fondo, il leader dl Pci Enrico Berlinguer (al famoso convegno del 1977 al teatro Eliseo a Roma, che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà benissimo) distinse tra «strumento di depressione economica» e «occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo» dove il «risanamento rigoroso dello Stato» si accompagnava alla «trasformazione dell'assetto della società come strumento di giustizia e di liberazione dell'uomo e di tutte le sue energie, oggi mortificate, disperse, sprecate».
Trentasei anni dopo, il rigoroso risanamento dello Stato è ancora un problema, nel senso che abbiamo costruito un welfare distorto e accumulato un debito di 2 mila miliardi. E nel senso di una giustizia a pezzi, dove la certezza del diritto è un optional, mentre una burocrazia autoreferente ed impermeabile ai cambiamenti si mette sempre di traverso. Che siano le procedure per gli aiuti al terremoto in Emilia o lo zig zag per i pagamenti della Pubblica amministrazione, il discorso non cambia. In questo caso, l'austerità amministrativa resta un'esigenza indifferibile.

Quanto alla trasformazione della società, dietro la sempreverde etichetta del "cambiamento" possono starci tante cose, compresa una sorta di riscoperta, e aggiornata, versione dell'austerità berlingueriana. La «decrescita felice» del Movimento 5 Stelle assieme ai «beni comuni» che sono alla base dell'intesa tra il Pd e Sel di Nichi Vendola mostrano diversi punti di contatto. Corre, sullo sfondo, una critica al riformismo di mercato e al "privato" come fattore di accumulazione di ricchezza e consumi. E si profila l'idea che occorre controriformare una società imbarbarita dal denaro, dagli sprechi e piegata agli interessi dei poteri globali. La crescita "tradizionale", che ha nel Pil la sua bussola, non c'è. Ne dovrebbe arrivare un'altra, più impalpabile e ritenuta "giusta", ma a forte e dirompente trazione ideologica.
È questo un modello culturale di «austerità nel cambiamento» ancora nebuloso, per fortuna non un programma di governo. Nel frattempo, in attesa della risposta di Bersani al Presidente Napolitano, non c'è da augurarsi altro che un cambiamento per la crescita. Quella vera, che aspettiamo da molti anni.

guido.gentili@ilsole24ore.com
twitter@guidogentili1

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