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Questo articolo è stato pubblicato il 28 marzo 2013 alle ore 08:15.

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Per essere un tecnico asceso in politica il professor Mario Monti ha imparato alla perfezione l'arte di eludere gli argomenti. Ma ormai è chiaro che i marò, più che dagli indiani, devono essere salvati dalle buone intenzioni dei nostri ministri. C'è solo da sperare che il collegio di difesa a New Delhi sia abbastanza bravo da limitare i danni. Certo che se in base alle parole del presidente del Consiglio dovessimo spiegare ai figli del fuciliere Latorre perché il loro papà è stato costretto a tornare in India saremmo in grave imbarazzo.

Questo governo ha detto tutto e il contrario di tutto. «Perché avete rimandato indietro i soldati? Non riusciamo a capirlo». Questa era la domanda che mi faceva lunedì l'alto funzionario di un Paese della Nato, importante partner economico: «La vostra diplomazia ci aveva convinto che il caso dovesse ricadere sotto la giurisdizione internazionale, non indiana».
In realtà l'Italia ha accettato il giudizio di New Delhi che a sua volta ha creato un paradosso istituzionale: l'esecutivo ha chiesto alla Corte suprema di insediare un tribunale speciale, come se le altre corti del Paese o internazionali non potessero avere una competenza. Gli indiani, anche per riflesso delle loro diatribe interne, sono animati da un nazionalismo esasperato e con gli italiani si sono addentrati in un ginepraio. Ma se non capisce la decisione del governo italiano un diplomatico di lungo corso della Nato, abituato a conflitti ben più aspri di quello dei marò, ancora meno possono comprenderla gli italiani.

Prevale però in questo momento l'irritazione nei confronti di un governo in agonia che peggio non poteva fare nel suo passo d'addio. Il presidente del Consiglio non ha dato spiegazioni soddisfacenti: né come si è fatto retromarcia né perché si è sviluppata questa battaglia tra ministri, senza che lui – dice – ne sapesse nulla. È comprensibile che dopo la batosta elettorale abbia poco da chiedere alla politica. L'anno scorso aveva la copertina di "Time" e diceva di essere ispirato a De Gasperi, oggi non vede l'ora di andarsene: ha coltivato un effimero narcisismo che presto sarà sostituito da altri, magari di stile diverso.
Secondo indiscrezioni, il ministro Giampaolo Di Paola aveva già pronta nelle scorse ore una lettera di dimissioni. L'intenzione era di adeguarsi alle decisioni collegiali del governo, ma anche di inviare subito dopo un messaggio di solidarietà alle forze armate. Non è possibile verificare questa informazione, ma nel gennaio scorso il ministero aveva contattato alcuni giornalisti sollecitando degli interventi stampa contro il rientro in India dei marò: segnale evidente che questo dicastero e il suo ministro ritenevano sbagliato rimandarli indietro. Sarebbe stato forse sufficiente che un tribunale italiano recapitasse ai due un mandato di comparizione per omicidio colposo.

Ma si è preferito imboccare la strada del ritorno degli "eroi", dei discorsi altisonanti, dei destini irrevocabili: le solite fesserie italiche delle quali storicamente dobbiamo solo pentirci. L'11 marzo poi abbiamo invertito la rotta e il ministro degli Esteri Giulio Terzi ha comunicato agli indiani che i due non sarebbero tornati. Con le dimissioni in diretta alla Camera Terzi avrebbe quindi "bruciato" a sorpresa Di Paola che a sua volta, da buon ammiraglio lo ha affondato affibbiandogli di fatto l'etichetta del fellone. Nessuno ha ancora capito le motivazioni del rientro dei due fucilieri di marina se non per difendere gli interessi commerciali italiani in India: 8,5 miliardi di dollari l'anno di interscambio.

Il presidente del Consiglio ha escluso un collegamento con la questione Finmeccanica-Agusta: questo è possibile perché quei soldi degli elicotteri probabilmente non li rivedremo mai.In ogni caso la vicenda colpisce in maniera devastante l'immagine dell'Italia e solleva dubbi sulla salvaguardia delle nostre forze armate pur così apprezzate, in particolare in Afghanistan. È da prevedere che il nuovo Parlamento rimetta in discussione anche il rifinanziamento delle missioni all'estero perché d'ora in poi, per alcuni anni, avremo un'Italia piccola piccola. Più o meno quella ereditata da De Gasperi che agli ambiziosi personaggi di oggi lasciò un avvertimento che dovrebbero seguire: «La politica non è un'escursione o un accessorio ma una missione».

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