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Questo articolo è stato pubblicato il 04 aprile 2013 alle ore 07:12.
L'ultima modifica è del 04 aprile 2013 alle ore 07:39.

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Nei malati cronici si instaura di solito un circolo vizioso: la malattia senza respiro indebolisce l'organismo e la cronicità diventa più pesante indebolendo vieppiù l'organismo stesso. Questa spirale soffocante si vede spesso nel mercato del lavoro: chi rimane senza lavoro per molto tempo subisce un'atrofia delle abilità, si dimentica il "saper fare".

Ma c'è anche una dimensione più vasta di questa cronicità, che riguarda la capacità di produrre a livello dell'industria intera. La produzione potenziale è un concetto complesso: tiene conto dell'utilizzo pieno degli impianti, della possibilità di disporre di una manodopera adeguata, di accesso alle materie prime necessarie, di una dotazione infrastrutturale sufficiente e di istituzioni che garantiscano la certezza del diritto e un ambiente regolatorio e fiscale favorevole. Di solito questi fattori cambiano solo lentamente. Se per ragioni congiunturali la produzione effettiva scende quella potenziale rimane quella di prima. Ma cosa succede quando la discesa della produzione effettiva dura da tempo e diventa una malattia cronica?

Succede che questa debolezza stinge anche sulla produzione potenziale: la capacità produttiva si deteriora, in una sorta di obsolescenza di tutto l'apparato: non solo la perdita di abilità presso i lavoratori, ma anche un'atrofia produttiva legata ai minori investimenti e allo spegnimento stesso delle capacità imprenditoriali, analogo all'appannnamento del saper fare presso i singoli lavoratori. Lo studio di Nomisma riportato nell'articolo di Paolo Bricco argomenta questa sconsolata conclusione. Vi sono vie e modi di risalire una china che vede la produzione potenziale dell'industria italiana ricacciata a vent'anni indietro? La lettura del dorso "Impresa e territori" del Sole-24 Ore offre spesso ragioni di ottimismo. Le parole che scorrono non sono quelle della politique politicienne, degli inviti e dei veti, dei tatticismi e delle furbizie, degli agguati e degli aggiramenti, delle sciocchezze e delle saggezze, ma quelle, semplici e dure, di una lotta per la sopravvivenza che vede impegnata la carne viva della nazione.

Accanto alle vicende di chi soccombe e chi soffre ci sono tante altre storie di successi e di eccellenze, di innovazioni e di ristrutturazioni, di ardite incursioni nei mercati esteri e di tenaci resistenze contro «dardi e strali di fortuna avversa». È come se sullo schermo del Paese fossero proiettati due film: uno che dipinge il falò delle vanità della politica e uno che scende nelle strade e ci parla del Paese reale che non è fatto solo di disperazione o rassegnazione ma anche di una lotta ostinata che spesso strappa la vittoria dalle fauci della sconfitta. La manifattura italiana è ancora capace di reagire e le analisi dell'Istat elencano le strategie delle imprese volte a far fronte a questi affanni.

Ma queste strategie non bastano se langue quella domanda interna che conta per due terzi nel fatturato delle imprese. Che cosa possono fare gli altri attori dell'economia, a partire dallo Stato, per sostenere quella lotta delle imprese che è ormai lotta di sopravvivenza? I rimedi sono quelli di sempre, dalle facilitazioni per la ricerca agli alleggerimenti - a gettito complessivo invariato - del fardello fiscale che grava sul valore aggiunto dell'impresa, dal costo del lavoro agli utili. Ma è soprattutto il ritorno della fiducia il segreto per una ripresa della produzione effettiva e potenziale. La crisi sta riportando la centralità dell'impresa al primo posto nella lista delle cure possibili per un Paese che è ancora il "Paese rotto" di Rodano. Il pagamento dei debiti della PA verso le imprese è solo un tassello - anche se simbolicamente importante - di un mosaico da costruire: un mosaico che disegna il traguardo ambito di un'economia che deve continuare a "trasformare" materie prime in prodotti finiti, pena il declino verso un futuro ricco solo di passati gloriosi.

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