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Questo articolo è stato pubblicato il 17 aprile 2013 alle ore 07:44.

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Mentre il ministro Elsa Fornero è alla disperata caccia di oltre un miliardo per finanziare la Cassa integrazione guadagni che ha esaurito i fondi e mentre la disoccupazione cresce di giorno in giorno a fronte di una caduta della domanda interna senza precedenti nel secondo Dopoguerra, anche il commercio estero comincia a perdere colpi.

A febbraio l'export italiano verso i Paesi Ue ha accusato, rispetto al 2012, un calo tendenziale del 6,6% (con un -2,3% cumulato nel primo bimestre). Ma anche l'export extra Ue mostra preoccupanti segnali di rallentamento, essendo aumentato solo del 2,1% (pur mantenendo ancora un +9,1% nei primi due mesi). Impensieriscono, soprattutto, la flessione delle nostre vendite sui principali mercati Ue (-9,7% in Germania e -5,8% in Francia a febbraio) nonché il fatto che anche la domanda interna cinese resta debole, frenando le nostre esportazioni verso Pechino (-9,2%). In aggiunta, il made in Italy vede rallentare le sue vendite anche verso Turchia, India ed economie dinamiche asiatiche. In pratica, mentre l'Europa ormai si è tutta spenta, tra i mercati extra Ue continuano a "tirare" solo Stati Uniti e Giappone, Russia e Paesi Opec: guarda caso, cioè solo quelle economie che stanno facendo politiche espansive o che si avvantaggiano con le entrate energetiche. Il resto del mondo è fermo e il nostro export non può più fare miracoli.

In questa situazione colpisce l'inerzia europea di fronte a una crisi mal gestita che da finanziaria si sta trasformando in un gigantesco dramma economico-sociale con milioni di disoccupati e in un'autentica distruzione di massa di capacità produttiva manifatturiera faticosamente costruita negli anni. Come un pilota che ha mal impostato una curva a 250 km all'ora e si ostina testardamente a non modificare la propria traiettoria, allo stesso modo i commissari europei (e i Paesi del Nord Europa che oggi ne ispirano la linea) pretendono di continuare nella strategia del rigore senza crescita. Ma è ormai chiaro che andando avanti così finiremo tutti fuori strada. Nello stesso tempo, colpisce il torpore di un''Italia che dopo aver fatto i "compiti a casa" meglio di qualunque altro Paese e dopo aver seminato sacrifici per avere un futuro migliore adesso si trova senza un Governo, cioè senza un "contadino" che possa trebbiare il raccolto e riscuotere a Bruxelles il giusto premio per gli sforzi fatti.
Abbiamo ottenuto di poter pagare parte dei debiti arretrati della pubblica amministrazione alle imprese, ma con tempi ancora assai incerti e per di più nei rigidi vincoli di regole di bilancio che ormai sembrano applicate in Europa solo all'Italia con ampie deroghe per gli altri Paesi, anche i più indisciplinati (come la Spagna).
Rimane sullo sfondo una carenza di liquidità gigantesca nel sistema economico italiano così già duramente provato dalla crisi dell'economia reale e dai colpi dell'austerità. Le imprese stanno attraversando da molti trimestri un deserto senza borraccia, mentre negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Giappone la liquidità scorre a fiumi e nei Paesi del Nord Europa dove i tassi di interesse sono ai minimi storici le aziende si finanziano con grande facilità.

Nel suo ultimo rapporto sul nostro Paese relativo agli squilibri macroeconomici, la Commissione europea riconosce testualmente che «rispetto alle altre nazioni dell'euro l'Italia è entrata nella crisi globale con un settore privato finanziariamente robusto e con un solido sistema bancario». Peccato, però, che la ricchezza finanziaria netta delle famiglie italiane, pur restando tra le più elevate al mondo, sotto i colpi delle tasse e dei crolli delle azioni delle nostre banche e dei titoli di Stato, è precipitata di 430 miliardi dal 2006 al 2011 (mentre nello stesso periodo quella dei "poveri" tedeschi - perché così ora essi si sentono dopo i recenti studi della Bce - è cresciuta di 507 miliardi, dati Eurostat). E peccato anche che le nostre banche, sotto le sferzate della crisi economica, abbiano con gli anni visto crescere alquanto le "sofferenze". Non solo. Sotto l'impulso apprezzabile della Banca d'Italia con severi controlli e ispezioni a tappeto, le banche italiane stanno altresì facendo una "pulizia" nei loro attivi pressoché unica in Europa. Ma ciò comporta un costo elevato. Il credit crunch continua, anzi si acuisce, e il numero delle imprese in crisi finanziaria aumenta.

Per questa ragione, come ha scritto Roberto Napoletano, bisogna fare in fretta per «salvare il salvabile». Bisogna aguzzare le meningi per trovare soluzioni come quella, ad esempio, di un soggetto non pubblico che sostenga le imprese in temporanea crisi finanziaria, sulle cui modalità operative ha scritto ieri Pellegrino Capaldo. E - o anche - come quella di valorizzare le nostre ingenti riserve auree, sin qui "dormienti". Il progetto di Alberto Quadrio Curzio e Fulvio Coltorti di Bankoro va in questa direzione. Il conferimento (senza vendita) delle riserve auree di Banca d'Italia a una società veicolo da essa controllata farebbe emergere una cospicua rivalutazione delle stesse. La tassazione di quest'ultima darebbe al Mef le entrate per iniettare nuovo capitale nella Cassa Depositi e Prestiti e permettere a quest'ultima di divenire l'azionista di maggioranza di Bankit, ripristinando una situazione che si era alterata quando si erano privatizzate le banche pubbliche. Dopodiché le banche private, cedendo le loro ("temporanee" da ormai troppi anni) quote di partecipazione in Bankit entrerebbero in possesso di una importante massa di manovra che permetterebbe loro non solo di riequilibrare i loro ratio patrimoniali ma di poter intervenire finalmente con maggior efficacia finanziando le imprese ormai a secco. Sarebbe "liquidità aurea" nel vero senso della parola per rimettere in moto la crescita.

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