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Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2013 alle ore 07:15.

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Nell'Italia remota del 1955, certo diversa da quella di oggi, la contesa sul Quirinale produsse una profonda lacerazione all'interno della Democrazia Cristiana, partito allora egemone. I candidati erano due, entrambi autorevoli esponenti di quella formazione. Cesare Merzagora riteneva necessario garantire la continuità dell'esperienza centrista, che peraltro dava segni di lento declino. Giovanni Gronchi guardava invece al "nuovo", si direbbe oggi, e intendeva promuovere l'apertura ai socialisti, cioè il futuro centrosinistra. La Dc si divise e alla fine la spuntò Gronchi. Ma era un'altra Italia e il grande corpo democristiano assorbì il trauma.

Oggi il Partito Democratico si è dilaniato su due scenari molto differenti fra loro. Il primo considera possibile e anzi opportuno cercare forme di collaborazione con il centrodestra per governare la legislatura e fare le riforme, cominciando dalla scelta comune del presidente della Repubblica. Il secondo tende invece a rompere quella fragile cornice che abbiamo chiamato Seconda Repubblica (senza sapere con precisione cosa sia stata) per aprirsi ai fenomeni emersi nella società e fotografati dalle elezioni.

È lo scenario che ritiene propizia l'occasione del Quirinale per imporre una svolta. Beppe Grillo ha interpretato questa linea con una notevole abilità. Ha premuto sul Pd con la candidatura di un giurista eccellente come Stefano Rodotà e ha ottenuto il suo risultato: il partito di Bersani si è aperto come una mela e in un paio di giorni Matteo Renzi è diventato l'uomo-chiave. Nel senso che nessuna soluzione istituzionale sarà possibile nelle prossime ore se il sindaco di Firenze non avrà dato il suo benestare. Grillo dall'esterno, Renzi dall'interno, il Pdl di Berlusconi a martellare sulla destra: tutti hanno qualcosa da chiedere o da imporre al partito bersaniano. Che, come la Dc del '55, è spaccato fra visioni contrapposte. Ma che a differenza di quella Dc non riesce a esercitare alcun tipo di egemonia nella società italiana, oggi percorsa da illusioni di democrazia diretta via web.

Bersani ha provato a muoversi su un sentiero sempre più stretto cercando una convergenza con Berlusconi, ma in punta di piedi, per non provocare una crisi di rigetto nel suo partito, dove l'anti-berlusconismo rimane un potente fattore di coesione interna. E infatti, quando tale fattore è venuto meno, con la decisione di appoggiare Franco Marini insieme al Pdl, subito l'accordo chiamiamolo «di sistema» è venuto meno, travolgendo il candidato (che per la sua storia vissuta e la personale credibilità meritava di meglio) e aprendo una ferita politica che forse andava prevista e anticipata.

Invece si è arrivati alla decisione drammatica e un po' surreale di tenere le «primarie» fra i parlamentari per decidere il nuovo nome da sostenere in luogo di quello dello sfortunato Marini. In tal modo una questione di fondo che investe la linea politica (con il centrodestra o contro il centrodestra) diventa una conta interna volta a individuare nientemeno che il futuro capo dello Stato. Il tutto a cavallo delle votazioni in corso. Se si voleva una prova dello stato di confusione in cui versa il Pd, questa rende inutili le altre.

Tutto arriva in ritardo, quando i buoi sono già fuggiti dalla stalla. C'è il rischio di trasformare la vittoria politica di Grillo, che è già nei fatti, in un trionfo senza precedenti sulle macerie del partito di maggioranza. Pericolo evitabile solo se oggi il gruppo dirigente riuscirà a riprendere in mano il bandolo della matassa, gestendo quel che resta dell'operazione Quirinale con accortezza. Specie se il nome destinato a emergere sarà quello di Romano Prodi. Un nome significativo, che certo rappresenta una chiara opzione politica, opposta a quella adombrata con la candidatura di Marini. A maggior ragione, spingere Prodi verso il Quirinale richiede notevole sapienza politica e consapevolezza che gli esiti di tale scelta non saranno banali. Saranno molto innovative per le istituzioni e il destino stesso del centrosinistra. Quanti ne sono consapevoli?

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