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Questo articolo è stato pubblicato il 20 aprile 2013 alle ore 09:45.
L'incredibile giornata vissuta ieri dal Parlamento e dalle istituzioni è ricca d'insegnamenti. Sta accadendo qualcosa di profondo che cambierà nel lungo periodo la politica italiana. Di sicuro ha già travolto il Partito Democratico in forme fino a pochi giorni fa imprevedibili. «Uno su quattro fra noi è un traditore» ha detto Bersani dichiarandosi vinto: una frase degna di Sciascia. Del resto, si può capire. Due candidati distrutti nel giro di 36 ore, Franco Marini e Romano Prodi.
Una figura storica del sindacalismo cattolico, rispettata da tutti. E uno dei padri ispiratori dell'Ulivo e dello stesso Pd, personaggio di alto profilo internazionale richiamato in patria per sottoporlo a una magrissima figura.
C'è qualcosa d'inquietante nel "cupio dissolvi" di un partito che ambiva a svolgere il ruolo di baricentro del sistema e che è riuscito a bruciare in poche ore due ipotesi politiche opposte: i "cecchini" contro Marini hanno affossato, almeno per ora, le «larghe intese» con Berlusconi; e i cento franchi tiratori che hanno colpito un nome come quello di Prodi hanno anche liquidato il tentativo di rinsaldare il Pd nella sua identità, con un occhio rivolto al mondo dei Cinque Stelle.
Anche la Dc in tempi lontani si divideva al suo interno quando c'era da eleggere il presidente della Repubblica. Ma i democristiani costituivano realmente il partito-sistema della Prima Repubblica ed erano in grado di assorbire le conseguenze di quelle ricorrenti lotte intestine. Oggi, nella "terra di nessuno" che qualcuno chiama Seconda Repubblica, il Pd non ha retto al peso delle proprie contraddizioni e ha dimostrato di non poter esercitare un ruolo analogo.
I l partito non si è spaccato solo sui nomi di Marini prima e di Prodi dopo: si è frantumato nell'impossibilità di scegliere fra due strade diverse. O una collaborazione istituzionale con il centrodestra; o una svolta "movimentista" determinata dalla convinzione (magari sbagliata) che il futuro sia nell'area dei "grillini" e che solo lì si possa ritrovare una ragion d'essere politica. Una scelta che in realtà farebbe perdere al Pd qualsiasi profilo politico autonomo.
Forse era impossibile per Bersani trovare un punto di sintesi fra due linee così alternative. E in ogni caso la sua segreteria ormai si è conclusa. Ma la vera debolezza è nell'impotenza stessa di un sistema che in questi anni non ha saputo riformarsi e che nelle elezioni di febbraio si è assestato su tre blocchi pressochè equivalenti, di cui uno fermo su posizioni di dura contestazione.
Queste tre minoranze (a cui si aggiunge il gruppo centrista di Monti) non sono conciliabili, come i fatti dimostrano. Sono la fotografia della paralisi. Il che rende quasi impossibile, non solo formare un governo stabile, ma anche eleggere il presidente della Repubblica. Un autentico rebus in cui peraltro il paese non può ristagnare a lungo. Un capo dello Stato va scelto in tempi brevissimi, e va scelto attraverso una larga convergenza. Ma chi è in grado di assumere l'iniziativa politica in merito? Il Pd sembra di no. Il Pdl gioca di rimessa al punto di abbandonare l'aula di Montecitorio, ma ieri con la sconfitta di Prodi ha segnato un gran punto al suo attivo.
Quanto al Movimento Cinque Stelle, Grillo è il vero vincitore della partita in corso e si capisce che voglia insistere su Stefano Rodotà, il noto giurista che inanella un successo dietro l'altro nei primi scrutini. Perchè ha la possibilità di fare l'"en plein" e di trasformare una vittoria in un trionfo. I democratici sono tentati realmente di confluire su Rodotà. Ed è una tentazione che riguarda soprattutto la vasta platea dei nuovi parlamentari, giovani sconosciuti appena eletti, provenienti da un mondo contiguo a quello dei Cinque Stelle e comunque abbagliati dal fenomeno "grillino".
La confluenza del Pd su Rodotà equivarrebbe a uno smottamento politico senza precedenti. Ma se pure non si trattasse di questo, l'unica possibilità di dare un presidente all'Italia sarà quella di compiere in fretta una scelta istituzionale (Cancellieri?), allargando al massimo il terreno del consenso.
Il tempo stringe e ci sarà modo di valutare le conseguenze politiche di quello che accade. Il Pd ora ha il dovere di posporre le proprie vicende interne alla scadenza istituzionale in atto. Fa bene Bersani a presentarsi dimissionario alla direzione del partito, ma è necessario che prima si chiuda la partita del Quirinale. Può accadere entro pochi giorni. Anzi, è indispensabile che avvenga il più presto possibile. Ora che le candidature "politiche" si vanno esaurendo, con l'eccezione forse dei nomi di D'Alema e Amato, resta aperta la strada di una soluzione di equilibrio istituzionale, affidata a un nome più neutro.
Ma i protagonisti di questo psico-dramma sono destinati a uscire di scena uno dopo l'altro. Aprirò il sistema come una scatoletta di tonno, diceva Grillo. Purtroppo bisogna riconoscere che ci sta quasi riuscendo. E il fallimento riguarda più o meno tutti, compreso il mitico Matteo Renzi che dovrà riflettere anche lui sugli accadimenti di queste ore.
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