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Questo articolo è stato pubblicato il 25 aprile 2013 alle ore 08:28.
L'ultima modifica è del 25 aprile 2013 alle ore 08:34.

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Il monologo europeo sull'austerità non basta più, bisogna cambiare, guardare oltre e dire anche altro: Enrico Letta non è un lassista, meno che mai un euro-sfascista. È da sempre un europeista di sicura fede. Smentendo le pessime abitudini della politica italiana che tendono sempre a ignorare l'Europa salvo poi subirla e a caro prezzo, il presidente del Consiglio appena incaricato ieri ha scelto di prendere subito il problema per le corna, dichiarando forte e chiaro il suo impegno a mutare il corso di una politica europea, i cui effetti deleteri sono ormai largamente davanti agli occhi di tutti.

Anche François Hollande più o meno un anno fa era entrato all'Eliseo promettendo alla Francia e all'Europa una nuova equazione politica: rigore sì ma temperato da una serie di stimoli Ue alla crescita. Sono passati i mesi, non è successo nulla. Anzi recessione, disoccupazione, de-industrializzazione, disinvestimenti si sono aggravati quasi ovunque, anche se gli effetti più nefasti si sono visti a Sud. Davvero, pur con tutta la sua buona volontà, Letta potrà riuscire dove Hollande ha fallito? Davvero saprà scalfire la corazza di Angela Merkel che, sventolando il vessillo del rigore e delle riforme per gli altri che tanto piace ai tedeschi, è decisa a ottenere il suo terzo mandato in settembre? «L'austerità ha raggiunto il suo limite» aveva denunciato due giorni fa il presidente della Commissione Ue José Barroso, prontamente richiamato all'ordine da Berlino. «Dobbiamo portare avanti le politiche sin qui perseguite, sarebbe un errore cambiarle adesso» gli ha subito mandato a dire il portavoce del cancelliere tedesco. Che il giorno prima aveva ribadito una volta di più il verbo: «La crescita non viene solo dai tagli alle spese ma anche dalle riforme strutturali».

E non importa se la settimana scorsa al G-20 di Washington anche l'Fmi aveva suonato l'allarme sull'eurozona che perde terreno rispetto agli Stati Uniti di nuovo in crescita (+1,9% quest'anno, +3% il prossimo contro -0,3% e un risicato +1,1%) perché il motore franco-tedesco appare sempre più debole e così deprime anche le economie della periferia. La politica tedesca resta e probabilmente resterà tetragona al cambiamento, almeno fino alla fine di settembre. Letta e con lui l'"altra" Europa potrebbero però trovare un alleato naturale nell'economia tedesca in perdita di velocità e ormai preda del contagio depressivo che dilaga nell'euro-sud mentre il mercato cinese non riesce a neutralizzarne i contraccolpi negativi sull'export. L'indice Ifo sulla fiducia di 7mila imprese tedesche per il secondo mese consecutivo ieri ha incassato un forte calo, oltre le più pessimistiche attese. Anche per i consumi segnali non incoraggianti. In febbraio le vendite di auto sono scese del 17%. Insomma, niente ripresa dietro l'angolo. Con la Bce che segnala la persistente debolezza delle banche e il calo della domanda di credito da parte di imprese e famiglie nell'eurozona. Se la congiuntura dovesse continuare a peggiorare investendo la Germania, per essere certa di vincere nemmeno la Merkel potrebbe far finta di niente.

Da qui a immaginare però un nuovo corso nella politica europea, il passo sarebbe davvero troppo lungo. A Berlino impera infatti la convinzione che, alla peggio, si useranno le regole del patto di stabilità con il massimo di flessibilità nei tempi di attuazione di rigore e riforme nei Paesi in difficoltà. Un euro un po' più debole e il ritocco dei tassi da parte della Bce potrebbero poi fornire un po' di ossigeno a tutti. «La Germania non intende governare l'Europa con i diktat» ha rassicurato in febbraio il suo presidente Joaquim Gauck. Davvero? Letta avrà molto filo da torcere.

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