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Questo articolo è stato pubblicato il 26 aprile 2013 alle ore 07:22.

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Ci sono ancora difficoltà, certo. Ci sono persino colpi di avvertimento, come la dichiarazione sferzante del ministro tedesco Schauble su quanto sia «sciocco» criticare la Germania a proposito della mancata crescita. Ma in definitiva Enrico Letta è vicino a formare il suo governo fondato sull'accordo Pd-Pdl-Scelta Civica. Non proprio un esecutivo di unità nazionale, ma qualcosa che gli si avvicina molto.

Di suo l'incaricato ci sta mettendo un grande impegno e in particolare un tratto giovane ed efficace, un modo di affrontare i problemi con franchezza, senza ricorrere agli stereotipi del gergo politico. Un approccio che ha colpito persino gli arcigni ambasciatori di Beppe Grillo, i due capigruppo dei Cinque Stelle.
S'intende che non basta la simpatia umana e la buona volontà. Se Letta riesce a scalare la montagna entro sabato sera o domenica mattina, lo deve a tre fattori. Il primo, ovviamente, è il fattore Quirinale. Napolitano ha aperto il suo ombrello protettivo sul giovane Enrico e non lo chiuderà più. Date le circostanze, è ciò che davvero conta. Secondo viene il fattore Pd. Salvo alcune voci minoritarie, il partito che era di Bersani ha capito dov'è la sua convenienza e per ora appoggia il presidente incaricato con discreta compattezza. Può darsi che al momento della fiducia mancherà qualche voto, ma non sarà un fenomeno rilevante (e i dissidenti sono già stati ammoniti: chi non vota, è fuori dal Pd).

Terzo fattore, Silvio Berlusconi. Il quale sta ottenendo in queste ore un apprezzabile risultato: una vera e propria rilegittimazione pubblica attesa per anni. È il primo frutto delle larghe intese e di quel «realismo politico» a cui Napolitano ha costretto i vari attori politici. Per Berlusconi tale esito non dipende solo dall'esser stato decisivo nella rielezione del presidente della Repubblica, avendo rinunciato a calcare la mano sulla crisi del centrosinistra. E nemmeno dal fatto che proprio in queste ore egli è tornato sulla scena internazionale grazie al suo vecchio amico George W. Bush che lo ha invitato a Dallas.
Il vero segno della rilegittimazione è nella puntualità con cui l'ex premier tiene fede al suo patto con Napolitano, senza creare veri ostacoli al tentativo Letta. La sua dichiarazione di ieri dal Texas era quasi un modello di ineccepibile buon senso: «Non importa chi guida l'esecutivo, l'importante è dare subito un governo al paese perché l'economia soffre». Niente veti, niente richieste ultimative. Anche sui punti economici c'è la volontà di chiudere: la questione dell'Imu, che per il centrodestra è dirimente, può trovare soluzione all'interno di un'intesa programmatica.

In altre parole, il capo del centrodestra è tornato a indossare i panni dello statista, come gli accade ciclicamente. E vale la pena sottolineare una coincidenza. Ieri era il 25 aprile. Lo stesso giorno in cui, sette anni fa, il premier in carica Berlusconi pronunciò a Onna, la cittadina abruzzese devastata dal terremoto, un discorso di conciliazione che viene ancora rimpianto perché rimase un fiore nel deserto. Pochi giorni dopo cominciò la discesa agli inferi con le vicende boccaccesche in cui erano coinvolti stuoli di ragazze (la prima fu Noemi Letizia).
Ora Berlusconi ripropone gli stessi accenti di allora: rispetto degli avversari, ricerca di soluzioni condivise, attenzione ai problemi dell'economia reale. Ci si domanda quanto potrà durare questa nuova attitudine. Dopo Onna, sette anni fa, durò poco anche perché cominciò l'offensiva della magistratura. Adesso si tratta di capire fino a che punto Enrico Letta riuscirà a mediare, ma anche a volare alto con il suo governo. Peraltro, come si è visto, dietro Letta c'è Napolitano. E Berlusconi lo sa.

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