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Questo articolo è stato pubblicato il 30 aprile 2013 alle ore 07:44.

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Ci si domandava se Enrico Letta avrebbe dimostrato, alla prova dei fatti, una personalità abbastanza solida per guidare un'impresa rischiosa come una grande coalizione. La risposta definitiva ancora non c'è, ma il discorso di ieri ha confortato chi ha investito sul giovane premier. E il risultato del voto di fiducia lo ha confermato.

Quindi può essere soddisfatto Giorgio Napolitano che ha scelto di avviare il ricambio delle generazioni ed è il vero padre della nuova stagione. Non a caso Letta ha reso omaggio al capo dello Stato con parole non rituali. È chiaro peraltro che l'intesa Pd-Pdl ha bisogno che al Quirinale ci sia un presidente che si chiama Napolitano. Perché il governo è fondato su un patto politico, sì, ma senza un presidente che sia insieme tutore e garante non c'è molto da attendersi nel medio termine dalla convivenza fra centrosinistra e centrodestra.
Solo Napolitano, con il giovane Letta a Palazzo Chigi, è in grado di tenere nel giusto equilibrio un Pd alla ricerca dell'identità perduta (o forse mai avuta) e un Berlusconi che oggi parla e si muove quasi come uno statista, ma domani chissà. Di fatto oggi il leader del Pdl è più che mai la figura-chiave per mantenere la stabilità del sistema. Ma questa condizione richiederà un costante lavoro di «manutenzione» dei rapporti politici. Il che pone al centro della scena il capo dello Stato: dipenderà in buona misura da lui se le «larghe intese» produrranno quella legittimazione reciproca che per Berlusconi è il vero premio della sua collaborazione. Nella speranza che anche i giudici dei vari processi ne tengano conto.

Resta da vedere, poi, se da tale legittimazione nascerà altro: per esempio un ruolo diretto del leader del Pdl nella futuribile Convenzione per le riforme. Ossia l'organismo citato da Letta come ennesimo strumento per affrontare il tema delle riforme istituzionali, benché la tabella di marcia indicata dal neo-premier sia più adatta a un governo di legislatura che a un esecutivo «di scopo» fondato su un programma scarno. Non è un caso se il discorso di Letta è sembrato costruito per un governo non limitato nel tempo.
Al contrario, aver sottolineato che fra diciotto mesi si svolgerà una sorta di verifica sulle riforme avviate, la dice lunga sulla volontà del presidente del Consiglio di darsi un orizzonte temporale più esteso. In fondo Letta non ha parlato di percorso riformatore definito e concluso entro diciotto mesi. Si è riferito piuttosto all'istruttoria della Convenzione, che sarà comunque da trasferire poi nelle aule parlamentari. Dunque i tempi si allungano e forse è un bene perché nel frattempo si dovrà lavorare molto per l'economia e il mondo produttivo.
La sospensione della prima rata dell'Imu serve ad accontentare il Pdl, ma non è risolutiva. Il costo delle riforme lasciate intravedere è molto alto e non è stato specificato. Così come non si è parlato di tagli alla spesa e di liberalizzazioni. Eppure il discorso di Letta è piaciuto anche ai mercati. Per la sua concretezza. O per aver precisato che la crescita economica non verrà finanziata con altro debito. Perciò gli vengono perdonati anche i punti deboli. Forse perché tutti sanno che dietro il premier c'è Napolitano con la sua esperienza.

C'è da augurarsi che sia così perché su certi passaggi Letta andrà riascoltato. Sulle riforme istituzionali, senza dubbio. Ma anche sulla riforma elettorale. Al premier piace il vecchio «Mattarellum», ma il problema è che la modifica elettorale andrà accompagnata da una riforma più ampia dell'assetto di governo. O il sistema tedesco con il cancelliere. O il modello francese con il semi-presidenzialismo e il doppio turno. Dibattito antico che ora dovrà toccare terra. Magari prima di diciotto mesi.

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