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Questo articolo è stato pubblicato il 03 maggio 2013 alle ore 07:05.

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«Torno a Roma più ottimista». Enrico Letta tira un bilancio decisamente positivo dalla fulminea visita nelle tre capitali che più contano oggi in Europa: Berlino, Parigi e Bruxelles. Positivo nell'immediato vuol dire rispetto dei patti europei ma con una certa flessibilità interpretativa per trovare un po' di crescita. In attesa di un'Europa migliore che scenda dal piedestallo, dimentichi le ossessioni rigoriste e si riconcili con i cittadini, i loro problemi e anche con la democrazia.

Non è poco e comunque è il massimo realisticamente possibile per un Governo costretto a destreggiarsi tra Scilla e Cariddi, tra il rigore europeo e l'urgente bisogno italiano di crescita e lavoro, la vera chiave per riassorbire gli squilibri e abbattere il debito pubblico.
Non è poco quando ci si prepara ad affrontare il giudizio europeo per uscire, a fine mese, dalla procedura anti-deficit eccessivo che dovrebbe consentirci qualche margine supplementare di spesa in investimenti produttivi insieme allo sblocco dei 90 miliardi di pagamenti pregressi alle imprese da parte della pubblica amministrazione. Quando ci si appresta a presentare a Bruxelles il programma nazionale delle riforme strutturali da realizzare nell'ambito del cosiddetto semestre europeo. Quando non si può certo ignorare il vincolo del pareggio di bilancio e della riduzione annua del debito (40 miliardi per 20 anni) assunto con il fiscal compact.

La congiuntura economica peggiora, l'Ocse ieri non ne ha fatto mistero, la Bce di Mario Draghi, per la prima volta da 10 mesi, ha deciso di ridurre i tassi allo 0,50%. Se l'Italia piange ed è alla disperata ricerca di risorse e riforme per rilanciare l'economia, la Germania ride sempre meno, con il manifatturiero in calo per il secondo mese consecutivo, la contrazione dell'auto, la fiducia dell'industria in caduta. Recessione e disoccupati ormai non perdonano quasi nessuno. Non per questo il neopresidente del Consiglio ha trovato Angela Merkel meno ligia alla sua ortodossia. Non poteva essere altrimenti soprattutto nel pieno della campagna elettorale.
Ma, tra le pieghe del dogma tedesco che continua a non vedere contraddizione tra rigore e crescita, da qualche tempo si colgono spazi di flessibilità. Oggi imposti dal realismo più che dalla solidarietà con i partner più deboli. Stessi segnali da Bruxelles. Sono nate a Parigi però le maggiori affinità elettive. Da quando è all'Eliseo, il presidente François Hollande insegue il progetto di fare dell'Europa il motore del rilancio economico dei suoi Stati membri. Finora con delusioni cocenti. Perché la Germania non ci sta. Come si è visto in giugno con il piano europeo per la crescita da 120 miliardi (fondi Ue riallocati, scarse risorse nuove) restato perlopiù sulla carta e poi, in novembre, con il bilancio del settennato 2014-20 per la prima volta nella storia comunitaria ridotto in termini reali (80 miliardi) rispetto al precedente.

Anche se Francia e Italia, seconda e terza economia dell'euro, promettono oggi di fare coppia meglio di ieri e dunque di pesare di più nelle trattative europee, a breve il sentiero della crescita resterà stretto. La flessibilità dei patti è meglio di niente ma certo non è la boccata d'ossigeno che potrebbe invece venire, in un'Europa più generosa e solidale, dallo stimolo di investimenti e domanda interna (tedesca in primis, dato l'abnorme surplus, 6,3%, delle partite correnti del Paese) e da un bilancio Ue più adeguato.
Ma così va l'Europa dove la Germania della Merkel resta convinta che la crescita economica sia il premio delle virtù riformiste di un Paese e quindi debba essere di matrice essenzialmente nazionale. Dove però c'è anche la Bce che, con i mini-tassi e un possibile euro più debole, fornisce stimoli negati altrove. Dove il premier Letta tenta di scuotere il vecchio albero europeo invocando politiche meno repressive e più propositive non solo per far ripartire l'economia ma anche per fermare le derive populiste, antidemocratiche e anti-europee che minacciano la tenuta di un grande progetto in crisi. L'Italia entra in gioco e la Francia socialista ne è confortata. La Germania sente poche ragioni.

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