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Questo articolo è stato pubblicato il 15 maggio 2013 alle ore 07:10.

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«L'idra dell'inflazione»: nei decenni passati è così che autorità e commentatori avevano cercato di instillare nella mente - per la verità un po' riottosa - degli italiani l'idea che l'inflazione fosse la peste del secolo. Dovremmo quindi essere contenti che, come ha comunicato ieri l'Istat, la dinamica dei prezzi al consumo è scesa a un quasi impercettibile 1,1%: aprile 2013 su aprile 2012. E c'è di più: rispetto al mese precedente il prezzo di quel paniere di beni che più contribuisce all'inflazione percepita dai consumatori – i beni ad alta frequenza di acquisto – è addirittura diminuito.

L'idra ha perso parecchie teste (variano da tre a nove, secondo le leggende). E anche Keynes dovrebbe essere contento del fatto che l'inflazione è stata sconfitta. Il grande economista ammonì che «Non c'è maniera più sottile e sicura per abbattere le basi della società che svilire la moneta. Le forze nascoste delle leggi economiche vengono arruolate in un processo distruttivo...». Tutto bene, dunque? Non proprio. L'inflazione contro cui tanti si scagliano (giustamente) è l'inflazione elevata. Quando l'inflazione volge verso il basso rischia di trasformarsi in deflazione (inflazione negativa, che spegne la voglia di spendere). E lo stesso Keynes ammise che, costretti a scegliere fra inflazione e deflazione, è meglio scegliere la deflazione. Questa (quasi) simmetria fra i due mali è stata riconosciuta dalle Banche centrali, che hanno oggi, esplicitamente o implicitamente, un obiettivo di bassa inflazione (intorno al 2%): non un obiettivo di inflazione zero o, peggio, negativa. Il che vuol dire che, quando il tasso di inflazione è sotto il 2% – come avviene in Italia, in Europa, in Usa, in Giappone... – le Banche centrali hanno non solo il diritto ma il dovere di intervenire per riportare la dinamica dei prezzi al consumo sulla retta via.

Questa equidistanza della politica delle Banche centrali – mantenere l'inflazione vicino al 2%, evitando sia strappi verso l'alto che verso il basso – non è una fattezza recente. In effetti viene da lontano: già nel 1921 Benjamin Strong – l'allora presidente della Federal Reserve – scriveva al suo collega Montagu Norman - Governatore della Bank of England - sui pericoli della deflazione: «Le pressioni al ribasso sui prezzi che hanno spazzato il mondo hanno raggiunto un punto pericoloso: per il bene pubblico, non sarebbe giustificata una deliberata politica inflazionistica?». Siamo stati così bravi per anni a battere sui pericoli dell'inflazione che abbiamo convinto anche chi non si doveva convincere: è significativo che Guglielmo Epifani, l'attuale segretario del Pd, in un'intervista al Sole-24 Ore del 2009 (allora era segretario della Cgil), guardava con disdegno all'azione delle Banche centrali, che aprivano il rubinetto della liquidità per sostenere il sistema finanziario e l'economia: «Avremo due anni di bassa inflazione, poi un ritorno a tassi di inflazione più alti come conseguenza delle iniezioni di liquidità di questi mesi...».

Ma torniamo all'inflazione italiana. Questo tasso dell'1,1% non è figlio della compostezza della contesa sociale: è figlio della disperazione. La domanda manca e produttori e venditori limano i prezzi: le limature portano via altro carburante alla caldaia dell'economia (quei prezzi sono anche redditi) e perpetuano stagnazione e recessione.
Come se ne esce? C'è un problema di stretta creditizia, e per allentarla non mancano le proposte. Il problema è che l'attività bancaria è per natura prociclica: un aggettivo difficile che vuol dire che le banche «ti prestano l'ombrello quando splende il sole e lo rivogliono indietro quando piove»: quando le cose vanno male le imprese falliscono, le sofferenze bancarie aumentano, questo rende le banche più restie a concedere credito, e la stretta creditizia peggiora ulteriormente le cose; mentre, quando l'economia va bene i profitti delle imprese aumentano e queste hanno meno bisogno di quei prestiti che invece le banche sarebbero pronte a concedere. Non esiste il modo di cambiare la natura strutturalmente prociclica dell'attività bancaria; e più la crisi è grave (e la crisi italiana attuale è ancora più grave di quella degli anni Trenta), più la prociclicità aumenta.
Si può solo cercare di attenuarla, introducendo qualche forma di garanzia ai prestiti che le banche fanno alle imprese. Oppure - ma ci vuole una Banca centrale coraggiosa come la Fed - acquistando dalle banche titoli cartolarizzati che hanno dietro i prestiti alle imprese.

Il paradosso è che la Fed, quando procedette in questa direzione (con il Talf del novembre 2008), agì al limite di quello che il suo statuto le permetteva, mentre la Bce non ha limiti statutari in proposito. Ma, se non ha limiti, ha però pastoie, legate al cieco rigorismo del Governo tedesco e della Bundesbank.
Il tasso di inflazione dell'Eurozona è però anch'esso di parecchio sotto al 2%, e bisogna che la Bce si guardi allo specchio e si chieda cosa fare per riportarlo verso l'alto. Alcune cose le può fare: da ulteriori riduzioni dei tassi a tassi negativi per i depositi delle banche presso la Bce, a interventi sul mercato secondario dei titoli pubblici a promozione di veicoli ad hoc per stimolare e garantire i prestiti alle imprese. Ma non bisogna nascondersi dietro un dito: il problema fondamentale è che manca la domanda, e qui può solo agire l'allentamento dell'austerità e il traino dei Paesi terzi, fortunatamente (per loro) meno impastoiati di quelli dell'Eurozona.
fabrizio@bigpond.net.au

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