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Questo articolo è stato pubblicato il 23 maggio 2013 alle ore 06:55.
L'ultima modifica è del 23 maggio 2013 alle ore 07:23.

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Per una volta l'Europa che non cresce, produce disoccupati e si deindustrializza, mentre il resto del mondo dovunque corre e ritrova dinamismo, ha scelto di non discettare di massimi sistemi ma di andare al sodo dei problemi. Di due problemi. Al vertice dei 28 leader dell'Unione, che si è tenuto ieri a Bruxelles, ci si è limitati infatti a parlare di fisco e prezzi e mercato dell'energia, cioè di alcune delle leve che muovono le competitività di sistema e quella delle imprese, essenziali per misurarsi con successo con la concorrenza globale.
«Invece che aumentare le tasse, meglio cercare l'imponibile dove oggi si nasconde», ha detto ieri il presidente francese François Hollande, andando al nocciolo della questione dell'elusione e dell'evasione fiscale: oggi sottrarrebbe agli erari nazionali Ue qualcosa come un trilione di euro all'anno mentre il rigore tartassa i bilanci pubblici e le risorse disponibili si assottigliano.
La risposta dovrebbe essere duplice: scambio automatico delle informazioni bancarie e riforma dei regimi fiscali compiacenti in vigore in molti Stati membri. Più facile da dire che da fare. Nel primo caso il successo dipende dall'esito dei negoziati con i 5 paradisi limitrofi, Svizzera in testa: senza un accordo chiaro con questi ultimi, il Lussemburgo non cederà sul segreto bancario, lo ripete da oltre un decennio.

Eliminare le scappatoie nascoste nei regimi fiscali più competitivi, come i casi di Apple, Google, Amazon esplosi in questi giorni dimostrano, è una faccenda ancora più complicata. Senza contare che nell'economia globale, neutralizzato un paradiso europeo, è facile con un click migrare su altro.
Schiacciata da una tassazione comunque superiore di vari punti percentuali tra le altre a quella americana, l'industria europea preme forte anche sul tasto energetico per tirare un po' il fiato. Soprattutto da quando i concorrenti Usa, grazie alla rivoluzione dello shale gas, pagano il metano un quarto rispetto alla media Ue.
«L'Europa dell'energia è un completo fallimento» denuncia a Parigi Gerard Mestrallet, l'ad del gruppo Gdf Suez invocando la pronta azione dei Governi, anche a nome di altri sette grandi produttori di gas e di elettricità tra cui la tedesca Eon, l'italiana Enel, la spagnola Iberdrola. Un altro allarme suona a Berlino: l'industria dell'auto lamenta «l'eccesso di vincoli ambientali Ue», che rischiano di mettere a terra l'intero comparto in Germania e invita la Merkel a correre ai ripari. Non accadeva dalla metà degli anni '80 che l'industria Ue si mobilitasse alzando la voce con tanta forza e determinazione contro l'inettitudine dei Governi.

Messa in croce dalla concorrenza internazionale, caduta in un'altra fase di declino relativo, allora si unì per chiedere (e poi ottenere) la fine degli steccati nazionali, la creazione di un mercato unico che le procurasse massa critica ed economie di scale sufficienti per tener testa ai suoi maggiori competitor.
Dunque ieri a Bruxelles un vertice di vera svolta? No. «Un evento più che altro simbolico per riportare la questione energetica al centro della scena europea e ribadire l'importanza della crociata contro l'effetto serra ma guardando con almeno altrettanta attenzione ai problemi della crescita economica», riassume un "reduce" dalle segrete stanze. Nulla di concreto nè di nuovo, quindi. Del resto in 4 ore, quanto è durato questo vertice, era difficile organizzare la doppia contro-rivoluzione fiscale ed energetica.
Vertice inutile? Incalzato dallo stato di necessità dell' industria alle corde, il summit di Bruxelles alla lunga potrebbe anche segnare il principio di un nuovo corso che in realtà dovrebbe limitarsi a chiudere il cerchio del primo: di un mercato unico nato sciancato nel '92, privo di politiche comuni nei trasporti, energia e fiscalità, tutte blindate nel recinto di sovranità nazionali intangibili e per questo tutte cresciute all'ombra dei rispettivi confini nazionali. Fatte apposta, quindi, per dividere mercati e Stati membri, non per facilitarne l'integrazione. Come è puntualmente accaduto.
La globalizzazione però non consente più questi discutibili lussi all'Europa che deve al più presto recuperare competitività per tornare a crescere e creare occupati invece di disoccupati. Soltanto nei prossimi mesi si saprà se i suoi Governi l'hanno finalmente capito. I cittadini, ha avvertito ieri Enrico Letta, «non hanno bisogno di parole ma di fatti».

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