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Questo articolo è stato pubblicato il 28 maggio 2013 alle ore 06:55.

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Era previsto che il voto amministrativo non avrebbe destabilizzato il governo delle larghe intese. Troppo vicino alle politiche di tre mesi fa, troppo eterogeneo. Quello che non era prevedibile, invece, è che avrebbe addirittura rafforzato l'esecutivo Letta.

È proprio quello che è accaduto, almeno stando ai dati del primo turno. Basta vedere chi ha vinto e chi ha perso. Ad esempio, il crollo bruciante dei Cinque Stelle ha molte spiegazioni, ma una sola conseguenza: la minaccia anti-sistema perde vigore, almeno nel medio periodo. Certo, le elezioni amministrative sono il terreno di confronto più scomodo per Beppe Grillo: la sua strategia a percussione ha bisogno della grande cassa di risonanza del voto politico per essere efficace. È stato sempre così per tutti i movimenti populisti, da Giannini a Poujade. Peraltro Roma (è di questa città che soprattutto si parla e si parlerà nei prossimi giorni) ha tutte le caratteristiche per essere sorda e ostile al messaggio "grillino". I romani non amano le varie "caste", ma sono abituati a conviverci da tempo infinito e semmai diffidano dei "tribuni del popolo". Messi alle strette si rifugiano nell'indifferenza e nel non-voto, evitano di correre sulle barricate.

Se a questo si aggiunge che il risultato del M5S è pessimo quasi ovunque nel resto d'Italia dove si è votato, si capisce che Grillo avrà molte cose su cui riflettere. Raccogliere consenso sollecitando l'odio verso il sistema, imputandogli inefficienza e corruzione, può essere molto facile in una prima fase; tuttavia la strada va presto in salita se non si ottengono risultati tangibili. Ovvero se non si è capaci di alimentare la macchina del populismo con carburante sempre nuovo. Grillo è bravo, ma è evidente che oggi non sa cosa fare. Le larghe intese avrebbero dovuto alimentare la crescita impetuosa dell'opposizione, secondo una certa "vulgata". Ma la realtà è un'altra. I "grillini" perdono slancio e fascino agli occhi dei loro elettori che preferiscono tornare all'astensione in attesa di tempi migliori.

E la colpa non è dei "media", come pretende un'altra "vulgata" di basso conio. La colpa è di un messaggio confuso, dell'incapacità di mettere la forza raccolta in febbraio al servizio di una vera istanza riformatrice, della modestia della classe dirigente che dovrebbe affacciarsi dietro al leader carismatico. In realtà non c'è nessuno o quasi. Ecco perché il governo e la sua larga maggioranza oggi sono un po' più solidi di ieri.
Può non durare, è ovvio. Ma in questo momento è l'opposizione frontale a dover rivedere molte cose nella sua strategia. E non è detto che Grillo sia in grado di cambiare strategia come si cambia una camicia. Finora ha accentuato i toni, nella predicazione del collasso prossimo venturo e di un millenarismo da "fiction" televisiva. Ora gli toccherà ripensare le scelte di fondo. Non tanto per l'insuccesso di De Vito a Roma e degli altri candidati altrove, tutti esclusi dai ballottaggi. Quanto perché è la "base", il famoso popolo del web, a essere furiosa e a chiedere conto al capo.

In tutto questo il centrodestra ha molto da rammaricarsi, visto che il sindaco Alemanno oscilla intorno al 30 per cento. Sconfitta attesa, ma bruciante. Berlusconi sembrava saperlo per quanta poca convinzione ha messo nel comizio di venerdì al Colosseo. Ma il Pd di Epifani, che esce in apparenza semi-vincitore dal primo turno, deve stare attento a non cantar vittoria. Il quadro generale racconta di un distacco dalla politica persino accentuato, almeno nella capitale. E il Pd si salva solo perché gli altri vanno peggio. La strada della risalita sarà molto lunga.

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