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Questo articolo è stato pubblicato il 01 giugno 2013 alle ore 09:30.

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Nello stesso giorno in cui l'Istat certifica che la disoccupazione (12,8% in generale, 41,9% quella giovanile) è ai massimi dal 1977, il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, avverte che questa recessione può scardinare la coesione sociale e che l'Italia viaggia (o meglio, si trascina) con un quarto di secolo di ritardo.


«Non siamo stati capaci», ha detto a pagina 10 delle sue Considerazioni finali, confermando che nessuno della classe dirigente nazionale - a partire da quella politica - può sottrarsi né ad una doverosa assunzione di responsabilità né ad una precisa indicazione sul da farsi.

I venticinque anni perduti raccontano oggi di un Paese a terra. La Banca d'Italia (dal cui serbatoio istituzionale di competenze sono appena usciti Fabrizio Saccomanni e Daniele Franco ora alla guida del ministero dell'Economia e della Ragioneria generale dello Stato), osserva che l'aggiustamento richiesto è di "portata storica" ed investe il sistema tutto. L'Italia resta infatti, a fatica, la seconda potenza manifatturiera d'Europa alle spalle della Germania, ma la crisi degli ultimi cinque anni l'ha colpita nel suo profilo industriale più degli altri Paesi europei. Un modello fondato su aziende piccole o piccolissime, povero di capitali in un mercato dei capitali ancora poco sviluppato, dipendente dal credito bancario, assediato dal fisco e dalla burocrazia, ha davanti a sé la strada sbarrata.

Non può rischiare, innovare, competere, e non a caso l'Italia risulta essere importatrice netta di tecnologia non incorporata in beni fisici, al contrario di tutti gli altri Paesi industrializzati avanzati. Le cifre ed i confronti richiamati dalla Banca d'Italia sull'attività di ricerca e sviluppo (e sul ruolo dello Stato) sono inequivoci. Un quadro allarmante in cui anche le straordinarie storie di successo del made in Italy in giro per il mondo rischiano di trasformarsi in casi isolati e non parti integranti di una rete di sistema che punta a rinnovarsi.

Il richiamo di Visco alle imprese per uno «sforzo eccezionale» che eviti la richiesta di sostegni pubblici è stato molto forte e il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che già mesi fa aveva proposto di tagliare tutte le agevolazioni alle imprese in cambio di robusti tagli fiscali, l'ha raccolto rispondendo «Noi siamo pronti ad investire». Ma qui il discorso si sposta subito sull'altro braccio della sperata ripresa (gli istituti di credito) e sulla spinta che può dare la stessa banca centrale. E, più in generale, si sposta poi sulle scelte di politica economica del nuovo governo guidato da Enrico Letta in un Paese nel quale, dall'istruzione al modello di welfare e ai freni all'attività d'impresa (liberalizzazioni mancate e giustizia civile inefficiente, per fare due soli esempi) le riforme per larga parte sono ancora da attuare e sono ostacolate da un reticolo fitto di posizioni di rendita.

Quanto alle banche, il credit crunch fa male sempre, ma lo fa di più in un sistema "bancocentrico" come quello italiano. Occorre spezzare, ha detto Visco, la «spirale negativa» per cui domanda ed offerta di credito non s'incontrano e la recessione colpisce sia le imprese (comprese quelle in condizioni finanziarie equilibrate) sia le banche in una catena di reciproche aspettative negative. Alle banche viene chiesto di contenere i costi, i dividendi, le remunerazioni di dirigenti e amministratori, migliorare il rapporto di fiducia con la clientela, favorire le imprese ad avvicinarsi ai mercati azionari e obbligazionari. Un richiamo, sì - sullo sfondo del caso Montepaschi e della richiesta alle Fondazioni di non condizionare le scelte di gestione e organizzative delle banche partecipate - ma certamente meno intenso di quello riservato alle imprese.
Al nuovo Governo, e ai politici che però «stentano a mediare tra interesse generale e interessi particolari», spetta dunque l'onere del cambio di passo. Come? Primo: tenendo conto conto che i progressi fatti sono ancora fragili, che dalla crisi non si può uscire con politiche in disavanzo e che i margini, anche in Europa, rimangono stretti. Secondo: accelerando i pagamenti della Pa già decisi, restituendo certezza alle misure fiscali, riducendo le imposte in modo selettivo e «privilegiando il lavoro e la produzione», a cominciare dal «cuneo fiscale che grava sul lavoro, frena l'occupazione e l'attività d'impresa». Iva ed Imu non sono citate: il messaggio è chiaro ma dovrà fare i conti con le scelte di un governo politico.

guido.gentili@ilsole24ore.com

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