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Questo articolo è stato pubblicato il 07 giugno 2013 alle ore 07:00.
L'ultima modifica è del 07 giugno 2013 alle ore 08:06.

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Se è difficile per un individuo ammettere i propri errori, ancora di più lo è per un'istituzione, soprattutto un'istituzione come il Fondo monetario internazionale, che non deve render conto direttamente a nessun corpo elettorale. Per questo il Country Report sulla Grecia, pubblicato ieri dall'Fmi, è particolarmente lodevole. Soprattutto perché lo scopo non è quello di attribuire colpe, ma di imparare dagli errori commessi. E nel "salvataggio" della Grecia nel 2010 di errori ne sono stati commessi tanti.
Commettere degli errori era inevitabile. L'intervento sulla Grecia era straordinario da molti punti di vista. Era il primo in un Paese dell'eurozona, ovvero un Paese che non aveva la flessibilità di svalutare la propria moneta e di scegliere in modo autonomo la politica monetaria. Era il più grande intervento, relativamente alle dimensione del Paese, mai organizzato dal Fondo. E aveva delle condizioni fiscali iniziali senza precedenti: un rapporto debito-Pil del 140% e un deficit di bilancio del 13,6% del Pil. Senza gli aiuti della famigerata troika (Fmi, Unione europea e Banca centrale europea) la Grecia non solo avrebbe fatto default (con possibili effetti sul resto d'Europa), ma dopo il default avrebbe dovuto effettuare un aggiustamento fiscale ancora più rapido, ovvero raggiungere un avanzo di bilancio al netto degli interessi nello stesso 2010, invece che nel 2013 come da piano dell'Fmi.

L'austerità, quindi, era necessaria, ma i tempi e i modi in cui è stata imposta - ammette l'Fmi - erano sbagliati. Innanzitutto la stima del cosiddetto moltiplicatore fiscale (ovvero di quanto una riduzione del deficit pubblico riduce il Pil) era troppo bassa (0,5 contro stime più recenti di 1-1,5). Il risultato è stato che i tagli di bilancio hanno causato una recessione più elevata del previsto. In secondo luogo, lo sforzo fiscale è stato concentrato troppo su un aumento delle entrate invece che una riduzione della spesa pubblica (sa di déjà vu?). Infine, la fiducia nella implementabilità in tempi brevi delle riforme strutturali era malriposta.
Ma la vera colpa ammessa dall'Fmi è di non aver tentato, fin dall'inizio, una ristrutturazione del debito. Certamente un default incontrollato, tipo Lehman, avrebbe potuto avere queste conseguenze. Ma una rinegoziazione del debito gestita dall'Fmi, come fatto in Uruguay nel 2002 e in Giamaica nel 2011, era non solo possibile, ma anche preferibile alla via intrapresa.
Soprattutto perché la posizione fiscale della Grecia era chiaramente insostenibile già nel 2010. Non solo molti commentatori (tra cui anch'io) lo avevano scritto al l'epoca, ma il Fondo stesso ne era consapevole - come ammette nel report. Tanto che per approvare il programma il Fondo ha dovuto cambiare le regole e accettare previsioni di lungo termine estremamente ottimiste.

Il ritardo nel default, che ha permesso a gran parte dei creditori privati di scappare senza perdite, è costato lacrime e sangue alla Grecia, senza renderla solvente nel lungo periodo. Il default (chiamato in modo eufemistico «coinvolgimento del settore privato») è arrivato, ma è arrivato troppo tardi. Nel 2012 la maggior parte dei titoli greci erano detenuti da istituti internazionali, esenti dalla ristrutturazione. E quindi la ristrutturazione, sebbene molto pesante, non è servita ad abbassare in modo sufficiente il rapporto debito-Pil. Tanto che il Fondo parla esplicitamente della necessità di nuovi aiuti: la Grecia è di nuovo a rischio.
Il report non punta il dito, ma allude chiaramente alle responsabilità europee su questo punto. Trichet – all'epoca governatore della Banca centrale europea – aveva dichiarato in modo perentorio che non avrebbe tollerato un default di un Paese dell'eurozona. Era convinzione diffusa tra i partner europei che una ristrutturazione non fosse fattibile e potesse avere conseguenze disastrose per la stabilità del sistema finanziario europeo. Di fronte al rischio di una nuova crisi, nessuno si è voluto prendere la responsabilità di proporre una via alternativa.
Il problema non si è posto solo per la Grecia, ma per l'Irlanda, il Portogallo, la Spagna, e anche l'Italia. In tutti i casi la troika ha scelto di imporre tutto il peso dell'aggiustamento ai Paesi debitori, senza considerare che l'errore non è solo di chi prende a prestito in modo sconsiderato, ma anche di colui che questi prestiti concede. Se questo atteggiamento è comprensibile da parte di istituti che di fatto rappresentano l'interesse dei creditori (come il Fondo e la Bce) è meno comprensibile da parte dei Governi nazionali, che avrebbero dovuto difendere l'interesse dei debitori. È troppo chiedere un mea culpa anche da loro?

TAG: Fmi, Europa, Bce

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