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Questo articolo è stato pubblicato il 25 giugno 2013 alle ore 16:12.

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Islanda, la seconda Era Glaciale: Usa-Russia ai ferri corti mentre la Cina vuole il tesoro sotto i ghiacci

REYKJAVIK. Nelle grigie giornate islandesi gli shelter in cemento armato che proteggono i caccia intercettori italiani, prendono i colori della Guerra fredda. Con il terreno vulcanico circostante sembrano la scena di un vecchio film di fantapolitica in bianco e nero, del mondo dopo una guerra termonucleare. Gli Eurofighters, con il cavallino rampante del 4° stormo di Grosseto sul timone, in missione di pattugliamento Nato dello spazio aereo islandese, escono ruggendo dagli shelters e spariscono nel cielo.

I grandi bunker erano stati costruiti dagli americani nel 1952, quando avevano preso possesso della base di Keflavik, una cinquantina di chilometri a Ovest di Reykjavik, l'avamposto di una eventuale battaglia per il controllo del Nord Atlantico e dell'Artico. Per molti anni è stata temuta una guerra per fortuna mai combattuta soprattutto grazie alla "Mutua distruzione assicurata": la constatazione che per quanto tu riesca a distruggere il nemico, lui farà comunque in tempo a distruggere anche te, diventata dottrina di equilibrio strategico e poi base del negoziato per il controllo e la riduzione delle testate atomiche. Più o meno Storia. Anche se le relazioni fra Stati Uniti e Russia oggi sembrano simili a quelle di uno dei molti periodi tesi nei 40 anni della Guerra fredda: non quelli promettenti del disgelo, neppure i giorni di crisi come per i missili di Cuba, nel 1962. Teso: preoccupante ma non ancora pericoloso. Qualcosa comunque di più simile a una nuova era glaciale che alla promessa di "ricominciare daccapo", quando Barack Obama era diventato presidente.

La seconda era glaciale
La Russia di Putin ha definitivamente lasciato l'Europa per tornare a una più tradizionale nozione eurasiatica della sua geopolitica. Da reazione saltuaria, l'antiamericanismo è diventato il pilastro dei suoi comportamenti e della ricerca del consenso interno. Serve un nemico che corrobori lo "stalinismo leggero" putiniano, un'involuzione del precedente "autoritarismo con il consenso dei governati": quando la gente pensava ai fatti suoi e il potere garantiva un benessere crescente grazie all'entusiasmante spinta del petrolio. Un sistema economico fondato sugli idrocarburi come non ha più neppure l'Arabia Saudita, non poteva durare. Nel 2000 il break even del prezzo del petrolio necessario per finanziare la crescita russa, era di 20 dollari al barile; di 40 prima della crisi finanziaria globale e di 115 oggi.

Figlio dell'antiamericanismo e della mancanza di alternative economiche che alimentino l'ambizione di superpotenza, Putin ha scelto la strada di una "reindustrializzazione" militare: il Programma Statale degli Armamenti, 700 miliardi di dollari per moltiplicare entro il 2020 aerei, navi, sottomarini e mezzi corazzati, dando un impulso alle forze armate, e contemporaneamente una soluzione ai precedenti tentativi falliti di industrializzazione civile. Sono più di 30 anni che i modelli di crescita nel mondo hanno preso strade opposte a quelle della Russia. Economicamente, rischia di diventare un villaggio Potemkin: una finzione. Come l'idea di un mercato eurasiatico venduto ai russi in alternativa a quello della Ue, omettendo che in Oriente la Russia vale solo l'1% degli scambi commerciali. Forse il segno più macroscopico del disorientamento russo sono i 330 miliardi di dollari trasferiti all'estero negli ultimi quattro anni.

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