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Questo articolo è stato pubblicato il 07 luglio 2013 alle ore 08:38.
L'ultima modifica è del 07 luglio 2013 alle ore 14:45.

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Uno spettro minaccioso si aggira per il mondo globalizzato e rischia di trasformarsi, attraverso la sbalorditiva velocità della rete, in una epidemia di indignazioni, proteste, rivolte e rivoluzioni. La storia invero ha da sempre registrato movimenti sociali di vario genere e natura che protestano nei confronti dei poteri dominanti e delle imposizioni di profonde ingiustizie.
Lo spettro ha però origini difformi e difficilmente comparabili. Dalla Tunisia all'Egitto, dagli Indignados a Occupy Wall Street, dalla Grecia alla Spagna e a modo suo l'Italia, ed ora dalla Turchia al Brasile, ma la lista potrebbe continuare. I cavalli della umana Apocalisse cavalcano, come ha rilevato Manuel Castells, sotto una varietà di forme: dallo sfruttamento economico, alla povertà senza speranza, alle disuguaglianze ingiuste, alla corruzione delle élite, alle politiche antidemocratiche, ai poteri giudiziari repressivi e brutali, ai fanatismi religiosi, alle violenze dei militari. Ma questa ributtante galleria potrebbe continuare.

La recente situazione egiziana ha sue particolarità, sia per il destino interno del Paese, sia per l'importanza internazionale che riveste per l'intero Occidente. Un popolo di circa 84 milioni di cittadini, profondamente divisi e dilaniati da indicibili violenze, di ogni origine e tipo, hanno abbattuto prima Mubarak nel febbraio del 2011, poi Morsi all'inizio di questo mese di luglio e stanno nuovamente sperimentando, oltre alle riottose confusioni dei fratelli islamici, una dittatura militare ed una situazione di esausta sopravvivenza economica, in cui la sconfitta della democrazia ha fatto diventare la protesta un sostituto dell'opposizione politica. E poi?
Negli altri Paesi la primavera araba si è in molti casi ridotta ad una sequela di proteste contro tutto o quasi tutto e le repressioni continuano, brutali come in Siria, tra i confusi commenti del resto del mondo.
Nell'eurozona, è noto che le proteste, a livello collettivo e dolorosamente individuale, si dirigono soprattutto verso le imposte politiche di austerity.

Il loro fallimento, da ultimo, è stato descritto da Martin Wolf, nell'ultimo numero della New York Review of Books, accusando quella politica di aver trasformato un'iniziale ripresa in una profonda stagnazione: «È peggio di un crimine, è uno sproposito».
E l'Italia, non meno degli altri, soffre di deflazione e depressione: i consumi crollano, la disoccupazione aumenta, l'istruzione diminuisce, i redditi di lavoro sono bassi, la domanda scende, e di conseguenza rimangono bassi i profitti e gli investimenti non partono. Inutile allora sottolineare, come già correttamente altri hanno fatto, che l'astensionismo dal voto, cioè la fuga dalla politica e l'abbandono dell'esercizio di un diritto fondamentale nella democrazia, sono un'altra forma, meno violenta, ma forse ancor più pericolosa, delle gridate proteste che hanno luoghi, origini, dimensioni e prospettive diverse.

Che il ritmo di tali proteste a San Paolo del Brasile o a Istambul in Turchia sia stato vorticosamente accelerato dalla tecnologia della rete, che ha fatto rifluire le popolazioni indignate nelle strade e nelle piazze, è stato ampiamente documentato. È allora tempo di trarre qualche conclusione. Le marce di protesta sono ben più attive nelle democrazie che nei regimi dittatoriali, anche per la facilità che questi hanno di reprimerle, con modalità fra loro differenti, come è accaduto in Cina, in Sud Arabia e in Russia. Ma è proprio l'incapacità a tener conto delle istanze delle proteste a esigere serie meditazioni sul futuro della democrazia.
Sarà bene allora ricordare che un Paese come la Turchia ha creato uno sviluppo economico sfociato in una classe media benestante e colta, ma riottosa nei confronti del premier Erdogan e del suo gruppo dirigente. La posizione strategica della Turchia - che da tempo discute sull'entrata nell'Ue e dall'altra parte sente il fascino delle sirene orientali strutturate in nuove organizzazioni politiche dalla Russia - pone un inquietante dilemma sullo stesso futuro del mondo occidentale.

Da questo quadro nasce spontanea la domanda se la borghesia, che ha sviluppato nella democrazia le sue forme e i suoi diritti, stia ora rivoltandosi contro se stessa. Gli strumenti interpretativi, da sempre utilizzati per comprendere queste proteste, non possono essere applicati alla crisi attuale della democrazia, che non rappresenta una nuova forma di lotta di classe, nei confronti dell'1% dei ricchi del mondo. È infatti la classe media che, raggiunto uno stato di maggior benessere economico, finisce per lottare contro se stessa, avendo rinunciato alle battaglie sui diritti fondamentali. La dimostrazione di questa conclusione ha un'evidente prova in ciò che sta avvenendo in Brasile: l'inaspettata rivolta nel mezzo di una relativa prosperità. Dal 2003, circa 40 milioni di brasiliani sono entrati a far parte della classe media e la percentuale di estrema povertà si è decisamente ridotta, sicché la maggioranza della popolazione sta molto meglio ora rispetto a dieci anni fa. Ma che senso hanno allora le grandi proteste per la costruzione di magnifici stadi di calcio per la Coppa del mondo e le Olimpiadi che dovrebbero disputarsi nei prossimi tre anni? La battaglia simbolica contro ciò che rappresenta una bandiera brasiliana deriva dallo sconsiderato aumento dei costi per il cittadino per l'inefficiente trasporto pubblico nelle grandi metropoli brasiliane. Questo apparentemente modesto segno è la conferma che all'aumento del reddito della popolazione non ha seguito il miglioramento delle condizioni e della dignità della vita. La presidente Dilma Rousseff ha proposto una serie di riforme in risposta ai dimostranti. Ma purtroppo, come spesso avviene in democrazia, è arrivata tardi.

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