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Questo articolo è stato pubblicato il 18 luglio 2013 alle ore 06:50.

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Due sono i fatti della giornata di ieri i cui riflessi politici diretti o indiretti sono evidenti. Il primo è l'assoluzione a Palermo del generale dei carabinieri Mario Mori. Il secondo è la sfida di Enrico Letta al «partito della crisi», chiamiamolo così: il premier difende a spada tratta il suo ministro Alfano e venerdì sarà in aula al Senato quando si voterà la sfiducia individuale.

Nessun nesso fra i due eventi, salvo uno: entrambi hanno a che fare con la salute delle istituzioni. E quindi con la credibilità complessiva del sistema. Nel primo caso (Mori) la sentenza fa bene alle istituzioni perché restituisce pienamente l'onore a un fedele servitore dello Stato. Il tormentato processo è finito con la sconfessione della tesi accusatoria: l'allora comandante dei Ros non favorì il capo-mafia Bernardo Provenzano. Non ci furono collusioni mafiose e i fatti contestati «non costituiscono reato». Ma la vicenda non finisce qui. Il processo Mori era ed è connesso a un altro procedimento: quello che riguarda la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Si ricorderà che intorno a questa ipotesi, peraltro assai fumosa, si creò a un certo punto un cortocircuito che arrivò a sfiorare il Quirinale, attraverso l'intercettazione abusiva delle telefonate di Napolitano. In altre parole, si rischiò di destabilizzare la presidenza della Repubblica.

Ora l'assoluzione di Mori è un colpo molto duro, forse mortale, alla leggenda della trattativa. Formalmente il teorema resta in piedi, ma pochi scommettono che le tesi dei pubblici ministeri possano essere accettate dopo che ne è stata smontata la premessa, o se si preferisce l'architrave: appunto la responsabilità di Mori che di quella «trattativa» doveva essere il primo esecutore.
Anche l'altro capitolo di giornata (Alfano) tocca da vicino le istituzioni, ma qui si naviga nella nebbia. Certo, Letta ha fatto l'unico passo utile per un presidente del Consiglio che vuole salvare il suo governo: si è schierato senza mezze misure a fianco del ministro dell'Interno. Ha preso di petto tutti coloro che lavorano per indebolire l'esecutivo o addirittura provocarne la caduta in piena estate. Si dirà che l'affare kazako è di tale gravità che la difesa d'ufficio del ministro alla fine potrebbe non bastare. Può darsi, ma ciò non toglie che Letta ha agito da uomo politico. C'è una relazione (del capo della polizia) e c'è un'esigenza generale: evitare un collasso senza alternative.

Letta con il suo intervento ha fatto da sponda a quanti nel Pd vogliono comunque difendere la stabilità, per quanto sia amaro il calice da cui oggi bisogna bere. Che il partito sia diviso, non c'è dubbio: basta ascoltare le parole di Anna Finocchiaro e di Cuperlo. Ma se il presidente del Consiglio parla con la determinazione dimostrata da Letta, la vicenda si può tenere sotto controllo. Senza dubbio l'incredibile autolesionismo di Casal Palocco ha fatto molto male alle istituzioni e non ha rafforzato il governo. Ma adesso si tratta di reggere l'impatto dell'onda di marea. Può essere discutibile, ma questa è politica. Tanto più che il premier continua a godere dell'appoggio di Napolitano, il quale prenderà oggi la parola nella cerimonia del "ventaglio" e non potrà evitare di affrontare i temi d'attualità, in un modo o nell'altro. Se il Pd tiene e Letta non si scoraggia, il caso Alfano potrebbe chiudersi. Renzi sembra averlo capito e non a caso ieri sera ha rassicurato tutti: non è sua intenzione far cadere il governo.

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