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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2013 alle ore 07:30.

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Nessun compromesso. La «saggezza» della Cassazione, riconosciuta alla vigilia del verdetto anche dai supporter di Silvio Berlusconi, ha portato a una conclusione adamantina: la conferma della responsabilità penale dell'ex premier nella vicenda Mediaset-diritti tv per le due frodi fiscali del 2002 e 2003 (le precedenti erano cadute in prescrizione) "costate" al l'Erario 7,3 milioni di euro.

Che è poi la stessa conclusione a cui era già pervenuta la Procura generale quando, con la requisitoria affidata ad Antonello Mura, aveva chiesto la conferma della condanna inflitta dai giudici di Milano ritenendo che il Cavaliere abbia svolto un ruolo centrale, quello di «ideatore del meccanismo di fatturazioni fittizie con il duplice scopo di gonfiare i costi per ottenere benefici fiscali e produrre pagamenti per la costituzione all'estero di ingenti capitali». Questo è il primo punto fermo. Che fa diventare definitiva e irrevocabile la condanna alla pena principale di 4 anni di carcere, di cui 3 condonati dall'indulto del 2006. Ciò vuol dire che Berlusconi, non appena dalla Procura di Milano arriverà l'ordine di esecuzione con contestuale sospensione (perché la pena residua è inferiore a 18 mesi), avrà 30 giorni di tempo (in realtà 60 perché siamo in periodo feriale) per optare per la detenzione domiciliare o per l'affidamento in prova ai servizi sociali. Potrà comunque avere dal magistrato di sorveglianza dei permessi per andare al Senato mentre non potrà andare all'estero perché la polizia dovrà ritirargli il passaporto. Sempre che nel frattempo non scatti la decadenza da parlamentare, deliberata dalla Giunta delle immunità, visto che ha «riportato una condanna superiore a 2 anni».
Il secondo punto fermo riguarda l'interdizione dai pubblici uffici confermata dalla Cassazione, che però ne ha rinviato al giudice di merito la «rideterminazione» poiché i 5 anni stabiliti dalla Corte d'appello sono frutto di un errore nell'applicazione e interpretazione della legge.

La misura dell'interdizione dai pubblici uffici era stata contestata già dalla Procura generale, secondo cui, però, la Cassazione avrebbe potuto rideterminarla direttamente in 3 anni, cioè nel massimo previsto dalla legge speciale sui reati finanziari (decreto legislativo n. 74 del 2000). Su questo punto la suprema Corte non è stata d'accordo, ritenendo che l'articolo 133 del Codice penale non le consenta di quantificare la pene accessorie. Perciò ha annullato la sentenza «per violazione di legge». Il che comporterà altri due passaggi: il primo di fronte alla Corte d'appello e poi di nuovo in Cassazione.
Se infatti l'interdizione verrà fissata nella misura massima di 3 anni (com'è verosimile), la difesa di Berlusconi impugnerà la sentenza in Cassazione quanto meno per ritardarne il passaggio in giudicato e quindi guadagnare tempo in vista della decadenza da senatore, qualora non fosse già stata deliberata dalla Giunta sulla base della semplice condanna a 4 anni.
Certo è che l'interdizione, a questo punto, è inevitabile. E la sua efficacia è solo una questione di tempo. La normativa sui reati fiscali, infatti, la prevede come pena accessoria automatica, qualunque sia l'entità della pena principale inflitta, fosse anche solo di 15 giorni. E stabilisce che non possa essere inferiore a un anno né superiore a 3, neppure per condanne a 10 anni. Al contrario, il Codice penale esclude l'interdizione per condanne inferiori a 3 anni, mentre se si supera questa soglia la pena accessoria è di 5 anni, che diventa perpetua per condanne superiori a 5 anni (com'è stato nel processo Ruby, dove Berlusconi ha avuto 7 anni).
L'«errore» dei giudici di Milano censurato dalla Cassazione (e rilevato già nella requisitoria della Procura generale) è stato quello di aver applicato la disciplina del Codice penale invece di quella prevista dalla legge speciale del 2000, articolo 12 (si veda Il Sole 24 ore del 30 luglio). Perciò, essendo la pena principale di 4 anni, avevano fissato in 5 anni la misura dell'interdizione dai pubblici uffici. A questo punto, però, in sede di rinvio dovranno attenersi all'indicazione della Cassazione e applicare, appunto, l'articolo 12 del decreto legislativo del 2000.

Si tratta tutto sommato di un dettaglio, che non inficia la pesantezza della condanna confermata ieri. Né incide sulla sua esecuzione. Tanto meno sulla decadenza da senatore, che in base all'articolo 3 del decreto legislativo 235 del 2012 (di attuazione della legge anticorruzione) la Giunta dovrà prendere in considerazione quanto prima sulla base della condanna ai 4 anni di carcere. E anche se decidesse di prendere tempo, poi dovrebbe fare i conti con l'interdizione. La Cassazione, insomma, non ha tolto le castagne dal fuoco a nessuno. È andata per la sua strada, senza se senza ma.

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