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Questo articolo è stato pubblicato il 11 agosto 2013 alle ore 13:47.

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Può una rondine far sperare nella primavera? Ovvero: può una buona regola finanziaria far sperare che in Italia si riesca finalmente a disegnare leggi che siano potenzialmente in grado di incentivare allo stesso tempo dell'efficienza dei mercati e l'efficacia della azione pubblica di politica economica? La legge sui minibond è una buona occasione per porci questa domanda.

Partiamo da un dato di fatto: il livello dei tassi di interesse nei prossimi mesi nei Paesi industrializzati tradizionali. La previsione più accreditata è facile: i tassi di interesse rimarranno bassi sia negli Stati Uniti e in Europa, a meno che non si verifichino impennate impreviste nei prezzi o nella domanda aggregata, ovvero focolai di instabilità finanziaria. I governatori delle quattro maggiori banche centrali dell'economia sviluppata tradizionale - americana, europea, inglese e giapponese - hanno nelle ultime settimane annunziato dei sentieri della politica monetaria che, pur diversi nel disegno e nella credibilità, possiedono almeno un tratto comune nella previsione dell'andamento dei tassi di interesse da loro governati.
In tempi normali una simile previsione significherebbe automaticamente una buona notizia per il finanziamento delle imprese: a tassi stabilmente più bassi dovrebbe corrispondere un profilo crescente nella disponibilità di credito e decrescente nel costo del credito stesso. Purtroppo i nostri tempi non sono affatto tempi normali.

Partiamo dall'Europa nel suo complesso. Il credito commerciale che le banche erogano alle imprese rappresenta circa il 70% del finanziamento complessivo, contro un 25% ad esempio degli Stati Uniti; in Italia la percentuale supera il 90%. Dove il credito commerciale è dominante, la catena di trasmissione che parte dai tassi di interesse e passa per disponibilità ed il costo del credito è fondamentale per aumentare le probabilità di rinforzare segnali di ripresa economica.
Q uesta volta tale catena difficilmente funzionerà.
Per una ragione molto semplice: se le banche europee vogliono migliorare stabilmente la loro redditività, possono essere spinte non ad aumentare il credito, ma a diminuirlo, e non a ridurre i prezzi, ma ad aumentarli.
Nei prossimi mesi, il quadro congiunturale continuerà ad essere stabilmente incerto;
nel nostro Paese i deficit strutturali di produttività non svaniranno certo come nebbia al sole.
Inoltre, il disegno della regolamentazione dovrà - giustamente - diventare più restrittivo. Il credito commerciale - che già di solito segue il ciclo, non certo lo anticipa - non potrà che stagnare, visto che aumentare il buon credito - cioè a basso tasso di sofferenza - sarà estremamente difficile. Congiuntura e regole hanno fatto innalzare l'avversione al rischio delle banche, che tenderanno a ridurre il loro livello di indebitamento, se vogliono mantenere equilibrio nella qualità del bilancio e solidità patrimoniale.

Questo sarà particolarmente vero in Italia, dove ogni euro in più di credito è zavorrato dai tre pesi imposti dal sistema Paese: la fiscalità, l'inefficienza delle infrastrutture pubbliche (in primis la giustizia), la fragilità politica.
Ma i tassi di interesse internazionali saranno più bassi; l'appetito per il rischio non manca. Quindi è ai mercati dei capitali che le imprese devono guardare quando endemicamente il credito commerciale tende a ridursi.
Qui nasce un anno fa l'idea italiana dei minibond, lanciata dall'allora ministro dello sviluppo Passera, fatta propria dal governo Monti, ed ora di nuovo all'attenzione del governo Letta.
I minibond sono un buon esempio del corretto mix di regola finanziaria e politica della tassazione: si disegna uno strumento che può aumentare la domanda di capitali da parte delle piccole e medie imprese (Pmi). Nella relazione che allora accompagnò la norma si stimava una potenziale platea di 650 imprese, per la copertura di un fabbisogno di capitale di 10 miliardi. Quindi stiamo parlando di un tassello, però pensato avendo come bussola un binomio che è quasi sistematicamente assente nel disegno delle regole finanziarie italiane: come si può coniugare la ricerca di una maggiore efficienza dei mercati finanziari con quella di garantire l'efficacia dell'azione pubblica, in un sistema da un lato banco centrico e dall'altro a forte inefficienza fiscale? Il disegno dei minibond ha cercato di iniziare a rispondere a questo quesito. Le norme hanno visto da un lato un accompagnamento bancario alla disintermediazione bancaria delle imprese; è un ossimoro delicato, ma inevitabile e potenzialmente fruttuoso, se ben disegnato; dall'altro un intervento sulla fiscalità dell'operazione, anche esso inevitabile in un Paese in cui la Pmi - ahinoi - non si quota in Borsa.
I minibond sono diventati operativi da sette mesi: i numeri assoluti - sia come importi che come imprese - sono lontani dalle previsioni- non dimentichiamo la zavorra sistema Paese - ma la rondine è volata; se ne sono accorti anche i media stranieri, sempre così avari di rilievi positivi nei nostri confronti. Per cui: un tassello non basta, il mosaico continua o no?

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