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Questo articolo è stato pubblicato il 14 agosto 2013 alle ore 07:41.
L'ultima modifica è del 14 agosto 2013 alle ore 07:42.

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Continua a crescere la tensione in Egitto. Mentre si rincorrono le voci di un imminente sgombero forzato delle piazze nelle quali i sostenitori dell'ex presidente Morsi sono accampati da settimane, il governo ha destituito 20 governatori provinciali su 27, tutti appartenenti ai Fratelli Musulmani. La continuazione di sit-in e manifestazioni di piazza è, secondo molti dei suoi dirigenti, l'ultima carta alla quale la Fratellanza Musulmana sembra potersi affidare per cercare almeno di riacquistare la centralità della scena politica.

Difficile quindi che la situazione possa spontaneamente "rientrare" in una sorta di normalità. Alcuni settori minoritari della dirigenza islamista, d'altronde, stanno valutando in queste ore la possibilità che la scelta di evitare la resistenza a oltranza possa essere "barattata" con la riammissione nel processo politico, come adombrato ieri dal primo ministro. La sensazione che vincano i falchi e, soprattutto, che quasi per l'inerzia delle cose si possa arrivare a uno scontro violento rimane però prevalente. In vista di una tale prospettiva, non stupisce che ci si torni a interrogare sulla natura del pronunciamento militare del 2 luglio, meno condivisibile che lo si faccia argomentando circa la natura "democratica" del golpe.

Porsi un simile quesito non è soltanto ozioso ma anche fuorviante. Evidentemente nessun intervento militare contro le autorità costituite può di per sé essere considerato "democratico". Persino quando l'esercito interviene contro un regime autoritario, come nel caso della "Rivoluzione dei garofani", che il 24 aprile 1974 pose fine alla dittatura in Portogallo, la democrazia sta nell'esito (possibile) e non nella natura dell'intervento. Sostenere quindi l'impossibilità dell'esistenza di un "golpe democratico" è un'ovvietà che però cela un più pericoloso e fuorviante errore analitico. Nel valutare l'intervento militare egiziano del 2 luglio, la sola cosa che conta è capire dove esso si collochi rispetto al processo rivoluzionario che, al suo esordio aveva portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak. Così come ciò che va compreso del regime instaurato da Morsi non è la presunta "democraticità" della sua elezione (che nulla dice circa la natura democratica del regime) ma, ancora una volta, la sua collocazione all'interno di un processo rivoluzionario tuttora in corso.

Frutto delle pressioni del movimento dei Tamarod (ribellione), che rifiutavano l'accentramento nelle mani del presidente Morsi di alcune prerogative tipiche del potere giudiziario e che contestavano l'aumento della corruzione, la disastrosa e incompetente gestione economica, l'occupazione sistematica da parte della Fratellanza di ogni posizione di potere, centrale o periferica, la crescente intolleranza nei confronti di quanti non intendessero conformarsi al nuovo "puritanesimo ufficiale", e la natura settaria e illiberale della nuova Costituzione, il colpo di Stato di al-Sisi sembra voler indirizzare la rivoluzione, piuttosto che fermarla.

È il "18 Brumaio" della rivoluzione egiziana, perché esattamente come quello di Bonaparte nel lontano 1799, l'intervento di al-Sisi non ha alcun intento restaurativo del vecchio ordine ma semmai è motivato dalla preoccupazione che il nuovo disordine possa mettere a rischio la sopravvivenza stessa del Paese, trascinandolo nella spirale delle lotte settarie (pii contro laici).

In questo senso, la questione dirimente è se al-Sisi abbia "difeso" la rivoluzione, e se Morsi la stesse "tradendo", se la Fratellanza (che non c'era in piazza Tahir a sfidare la polizia di Mubarak) la stesse dirottando a suo uso e consumo oppure no. Che le rivoluzioni possano essere innescate o punteggiate da pronunciamenti dell'esercito non è una novità, neppure restando alla sola storia egiziana. Furono i militari a guidare la rivoluzione del 1952 che, partita come un colpo di Stato, innalzò con Nasser la bandiera del panarabismo, allo scopo innanzitutto di riscattare l'Egitto dalla profonda prostrazione in cui stava languendo da decenni. Le domande che oggi dobbiamo porci rispetto al golpe di al-Sisi sono molto semplici e richiamano quelle dei tempi di Nasser (che non per caso ebbe come acerrimi nemici i Fratelli Musulmani): esisteva una minaccia puntuale alla rivoluzione e al futuro stesso del Paese tale da giustificarlo? E credo che la risposta sia un doppio sì. Non solo Morsi stava progressivamente cercando di monopolizzare il potere in modo assoluto (un'accusa mossagli pubblicamente due giorni or sono anche da Sherif Taha, figura di spicco dei salafiti egiziani). Ma, soprattutto, lo stava facendo attraverso decisioni che rischiavano di coinvolgere l'Egitto nella guerra civile siriana, dimostrando di anteporre l'interesse "dell'internazionale islamista" rispetto a quello nazionale dell'Egitto. Qualcosa di intollerabile per l'esercito, pilastro dell'identità nazionale e custode della memoria di Nasser. Il quale, semmai, era riuscito a piegare il panarabismo all'interesse egiziano (con l'esperienza della sostanziale annessione della Siria ai tempi della Repubblica Araba Unita,), e mai avrebbe potuto contemplare il suo contrario.

Il golpe di al-Sisi non è, e non poteva essere, un golpe "democratico", ma è un golpe "rivoluzionario", ovvero un tentativo di salvare e indirizzare la rivoluzione, evitando che essa venga completamente dirottata e svuotata dalle pratiche totalitarie di Morsi e del suo partito. Vedremo se riuscirà nel suo intento; ma occorre essere consapevoli che l'alternativa, giunti a questo punto, potrebbe essere una devastante guerra civile di stile "algerino" o "siriano".

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