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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2013 alle ore 07:00.

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A giudicare dalle sue inclinazioni giovanili, non si sarebbe detto che Luigi Lucchini avrebbe intrapreso un giorno un'attività industriale. Era figlio di un fabbro e di una contadina della Val Sabbia.
Dopo il diploma di maestro elementare e dopo aver imparato un po' di tedesco, aveva lasciato il paese natale del Bresciano per seguire un corso di filologia romanza all'Università di Heidelberg.

Solo alla fine della guerra, durante la quale aveva fatto l'impiegato comunale, s'era deciso a cambiare mestiere, occupandosi del commercio del rottame per poi impiantare, utilizzando rotaie fuori uso, un forno elettrico nella fucina del padre. E tanto aveva saputo farci da ridurre di un terzo gli scarti nella fabbricazione di profilati.
Di qui era cominciata l'avventura imprenditoriale di Lucchini, che, in capo a una trentina d'anni, sarebbe divenuto uno dei big della siderurgia italiana, acquisendo uno dopo l'altro vari grossi stabilimenti e aggregandoli sotto le insegne di una holding, le Acciaierie e ferriere italiane, che recava il suo nome.
Presidente dal 1978 degli industriali bresciani, Lucchini aveva stretto non solo intensi rapporti d'affari con i titolari di altre grandi imprese collaterali o complementari al suo settore. Apprezzato dal leader di Mediobanca Enrico Cuccia (che aveva potuto fare affidamento su di lui per la creazione nel 1980 del Consorzio della Snia) e socio di Luigi Orlando e di Leopoldo Pirelli nella Smi era stato cooptato a pieno titolo nel salotto buono del capitalismo italiano.

Anche Carlo Pesenti, Pietro Marzotto e Carlo De Benedetti avevano perciò appoggiato la candidatura di Lucchini alla presidenza della Confindustria, che era stata poi sancita da Agnelli, dopo un incontro a Torino nel dicembre 1983.
Tuttavia, l'uomo che nel maggio 1984 s'era insediato a viale dell'Astronomia non intendeva essere una controfigura né tantomeno il portatore d'acqua di uno o dell'altro esponente del Gota industriale. A capo di una robusta concentrazione siderurgica e autonomo finanziariamente, avvezzo a dire chiaro e tondo come la pensava e portato da sempre a badare al sodo, impersonava una nuova generazione di self made man. Perciò il suo avvento al timone della Confindustria, dopo quello di Vittorio Merloni, proveniente anch'egli dalle file della piccola-media imprenditoria, segnò una svolta negli annali della Confederazione, che avrebbe contribuito a rafforzare la sua rappresentatività del mondo imprenditoriale e perciò la sua immagine e le sue credenziali.

Del resto, Lucchini aveva affermato nel suo discorso d'insediamento di considerare la Confindustria come «uno strumento indispensabile» non solo per «la difesa delle imprese che già esistevano» ma per la «promozione di quelle che dovevano crescere». A tal fine s'era anche impegnato ad assecondare un equilibrio di potere sia fra "i grandi privati" sia fra le Associazioni territoriali e quelle di categoria; nonché a risanare le finanze della Confindustria. Ma aveva continuato ad ammonire i colleghi di non farsi prendere dall'euforia, dopo il referendum del 1985 sulla scala mobile e dopo il sorpasso nel 1986 della Gran Bretagna da parte dell'Italia come quinta potenza industriale. Tante erano le anomalie e le disfunzioni del sistema Paese per cui occorreva, a suo giudizio, non illudersi di poter vivere di rendita e darsi da fare per migliorare efficienza e produttività in vista di una maggiore competizione nel mercato unico europeo.

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