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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2013 alle ore 08:40.

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La ripresa dell'economia occidentale ha già troppi margini di incertezza: il tapering delle Banche centrali che potrebbe strozzare nella culla la già debole ripresa mondiale, frenata dal rallentamento di molte economie emergenti oltre che dalla sostanziale stagnazione dell'Europa.

Possiamo permetterci, in questa situazione, anche il rischio di una nuova guerra in Medio Oriente con l'inevitabile esplosione dei prezzi del petrolio?
C'è dunque, oltre ai ben più pesanti rischi politici di destabilizzazione di un'area con equilibri fragilissimi, anche una ragione puramente economica - ed è anche per questo che credo sia utile parlarne sul Sole-24 Ore - che dovrebbe indurre l'Amministrazione americana a ripensare i propositi di attacco. La ripresa (peraltro non travolgente) negli Stati Uniti dopo cinque anni orribili (cinque anni da Lehman, ricordiamolo, un tempo infinito), non può certo sopportare variabili di incertezza e fattori di rischio così elevati. Ci si è spinti troppo oltre e ora è impossibile, se non a costo di un crollo della leadership americana, tornare indietro? Capisco l'argomento, capisco che qui è in gioco la credibilità di Obama, ma l'esito dell'intervento può procurare danni molto maggiori, anche alla sua stessa leadership e alla solitudine della politica estera americana.

È stato leggendo un giornalista del Sole-24 Ore, Ugo Tramballi, che ho riflettuto sul fatto che da Ronald Reagan in poi tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno bombardato almeno un Paese arabo senza raggiungere né il loro obiettivo finale né un miglioramento in qualche modo della situazione. Reagan in Libia nel 1986, George Bush senior l'Iraq nel 1991, Clinton in Sudan nel 1998, per non parlare di George Bush junior. La probabilità di ripercorrere questi fallimenti mi sembra particolarmente alta.
Proprio nei giorni scorsi gli americani tutti (e anche noi in Europa) hanno potuto vedere di che pasta sono fatti i ribelli al regime di Assad. Quelli che dovrebbero essere i buoni. Il sito del New York Times ha tenuto a lungo in homepage l'immagine macabra delle crudeli esecuzioni effettuate dai ribelli nei confronti di prigionieri. «Sarebbero questi gli amici che dobbiamo proteggere?», si è chiesta l'America sgomenta. E questo è un primo fattore: l'intervento potrebbe favorire forze di cui non conosciamo assolutamente l'affidabilità. È evidente che l'intenzione degli Stati Uniti è quella di colpire la Siria per mandare un messaggio forte all'Iran, ma il rischio che il conflitto si allarghi ai Paesi vicini mi pare sproporzionato rispetto agli eventuali benefici di questo "messaggio".

Sui rischi di allargare il conflitto alle potenze vicine, poi, non c'è neppure bisogno di soffermarsi. Certo, a Washington si fa affidamento su un intervento breve, tale da non implicare una vera e propria guerra come in Iraq. Ma un blitz di questo tipo raggiungerebbe il risultato di convincere Assad a non usare più armi chimiche? E se Assad continuasse con il massacro dei civili con armi convenzionali, cosa farebbero gli Stati Uniti? Io penso che un intervento americano, anche sotto forma di blitz, inasprirebbe la reazione del regime e non impedirebbe di proseguire, magari ancora con l'uso di armi chimiche, il massacro che tanti morti e tanti profughi ha già procurato.
È molto probabile, perciò, che se il bombardamento ci sarà, porterà, magari al di là delle intenzioni stesse del Pentagono, verso un impegno crescente e duraturo. Non l'Iraq, ma qualcosa di molto simile. Con la differenza che in questo caso l'Iran non starebbe a lungo a guardare. Possiamo permetterci una guerra estesa a tutto il Medio Oriente perché Obama, dopo essersi spinto troppo in là, non può ora permettersi di perdere la faccia?

Sono stato, e sono ancora, un sostenitore di Obama. Lo sono stato per tutto quello di straordinario che ha rappresentato e rappresenta nella storia della democrazia americana. Per chi ha frequentato quel Paese in anni in cui la questione razziale era ancora uno scandalo per le coscienze, la sua storia si identifica con la migliore storia dell'America. Ma sono davvero incredibili gli errori commessi nella sua politica verso il mondo arabo. Nei confronti delle primavere, innanzitutto, e poi nell'escalation di prese di posizione verso Assad e la Siria.
Già due anni fa Obama dichiarò che Assad doveva uscire di scena. Un anno fa ha sostenuto che l'uso di armi chimiche costituiva una linea rossa. Poi ha continuato a giocare con le parole creando, con la sua retorica, attese che - come ha scritto Fareed Zakaria - avrebbero fatto prima o poi emergere le contraddizioni della posizione americana, costringendo di fatto l'amministrazione Obama a un'ulteriore escalation.

Le dichiarazioni del segretario di Stato John Kerry al Congresso, che ha usato termini come «vitale sicurezza nazionale», «Munich moment», e il paragone con gli eventi che condussero alla Seconda guerra mondiale, hanno fatto il resto.
Disastro alle porte? Io spero che ci sia ancora tempo per un ripensamento. Anche perché la sensazione è che il presidente americano sia il primo ad avere pochissima voglia di mettersi in un'avventura dall'esito così problematico. Di cui anche lui non ha messo a fuoco il possibile obiettivo finale.

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