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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2013 alle ore 09:30.

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Come nel '99: il déjà-vu del manager

La Telecom gli è stata fatale per due volte. La prima nel '99, quando la «razza padana» che già aveva acquisito il controllo di Olivetti aveva sferrato un'Opa a debito su Telecom con il sostegno delle grandi banche d'affari Usa e del governo D'Alema. Franco Bernabè era stato nominato amministratore delegato del gruppo telefonico da appena qualche mese, proveniente dall'Eni, di cui aveva retto le sorti nel periodo di Tangentopoli.

All'Eni aveva lavorato bene, aveva ridato credibilità al gruppo, lo aveva riorganizzato su scala internazionale, promuovendo una nuova generazione di dirigenti, e lo aveva collocato in Borsa in varie tranche, aprendone il capitale ai piccoli risparmiatori e ai fondi pensione di tutto il mondo e contribuendo ad attuare il piano di privatizzazioni del Tesoro che in quel momento si rendeva indispensabile per l'ingresso dell'Italia nell'euro.

Aveva già passato quasi sette anni alla guida dell'Eni quando i rappresentanti del "nocciolo duro" lo chiamarono in Telecom. La compagnia telefonica era stata privatizzata nell'autunno del '97, ma non aveva trovato un proprio assetto manageriale. Il primo presidente, Guido Rossi, che aveva gestito la fase preparatoria dell'Offerta pubblica di vendita, si era dimesso subito dopo l'insediamento degli azionisti privati ed il suo successore, Gian Mario Rossignolo, molto vicino ad Umberto Agnelli, si era rivelato inadeguato a gestire una società dagli equilibri così complessi in cui lo Stato aveva mantenuto una piccola quota accanto alla golden share.

Bernabè, che era uno dei top manager più apprezzati dai mercati finanziari proprio per il lavoro svolto all'Eni, avrebbe dovuto ridare smalto a Telecom, ma, mentre veniva cooptato alla guida operativa della società dal ghota dell'industria e delle banche, gli scalatori erano all'opera da tempo e stavano per negoziare i placet politici per l'Opa ostile.

Fu una battaglia persa, quella di Bernabè. L'unica mossa che avrebbe potuto sbarrare la strada ai Colaninno e agli Gnutti sarebbe stata la fusione Telecom-Tim nei giorni immediatamente successivi all'annuncio dell'Opa, quando la Consob aveva obbligato la Olivetti a riformulare l'intera operazione e non era ancora entrata in vigore la passivity rule. Ma Bernabè fece altre scelte e non vi fu nulla da fare. Da quel momento in poi l'uomo sembrava uscito di scena, aveva financo intrapreso delle sue attività imprenditoriali, quand'ecco che un bel giorno del 2007 viene ricooptato al vertice di Telecom grazie a un accordo tra Bazoli e Geronzi, i banchieri di "sistema" che si proponevano di salvare la società dalle grinfie di Telefonica.

Decisivo fu in questa occasione anche il via libera degli azionisti francesi di Mediobanca (Bollorè e Ben Ammar) anch'essa imbarcata nella Telco insieme a Generali e a Intesa Sanpaolo per assicurare la difesa dell'italianità di Telecom. Per Bernabè sembrava arrivato il momento della rivincita. S'è invece avverata a distanza di anni la profezia contenuta nel suo discorso a tutti i dipendenti di Telecom pronunciato nel '99 nel pieno della battaglia contro Colaninno: "Cari politici, state lasciando che la società sia appesantita da una montagna di debiti da cui non si riavrà più". Sembra sia stata la lettura di queste pagine appassionate a convincere Bolloré e Ben Ammar a sciogliere le loro riserve su Bernabè al momento della sua nomina ad amministratore delegato.

Telco, che aveva ereditato gli ulteriori debiti contratti da Olimpia, avrebbe dovuto ripatrimonializzare Telecom per permetterne il rilancio degli investimenti, per consentirle di realizzare una moderna infrastruttura in fibra ottica al servizio del paese e dell'economia. Ed è nell'attesa vana di una ricapitalizzazione solo adombrata ma mai attuata che la società è scivolata nelle mani di Telefonica. Già nel '97 le banche azioniste del "nocciolo duro" avevano dimostrato di non essere all'altezza della sfida delle telecomunicazioni, un settore a rendimento molto differito nel tempo. A Bernabè non è rimasto che prenderne atto e trattare la resa.

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