Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 20 ottobre 2013 alle ore 14:19.
L'ultima modifica è del 20 ottobre 2013 alle ore 14:41.

My24

Sia il governo Monti che il governo Letta si sono giustamente impegnati a cercare di promuovere gli investimenti esteri in Italia. È una lodevole iniziativa visto che l'Italia soffre per una carenza di tali investimenti: la media degli ultimi 5 anni è di solo 11 miliardi l'anno, contro i 44 della Francia e i 36 della Spagna. Per stimolare gli investimenti esteri in Italia, però, è necessario identificare il perché gli stranieri non vogliono investire nel nostro Paese. Sia Monti che Letta sembrano credere che le cause siano da trovarsi nella scarsa flessibilità del nostro mercato del lavoro. Certamente il fattore lavoro è meno flessibile in Italia che in America o nel Regno Unito. Ma è leggermente più flessibile di quello francese e spagnolo. L'indice dell'Ocse sulle restrizioni del mercato del lavoro assegna all'Italia 2.58 in una scala dallo 0 (nessuna restrizione) al 6 (massimo di restrizioni), contro un 3 della Francia e un 3.11 della Spagna. Perché allora gli stranieri investono nei nostri Paesi limitrofi, ma non nel nostro?
La spiegazione deve essere un'altra. Un'ipotesi sempre più credibile è che gli stranieri non investono nel nostro Paese perché non si fidano della sua classe dirigente. Non parlo solo di quella politica, ma anche di quella manageriale. Ogni investimento è costellato di rischi industriali. A questi si aggiungono le difficoltà di comprensione ed adattamento tipici degli investimenti in un Paese straniero. Questi rischi possono essere accettati solo se esiste una fiducia nel sistema e nelle persone con cui si interagisce.

Questa fiducia verso l'Italia manca. In parte perché il nostro sistema di giustizia è lento e farraginoso, ma anche perché i nostri imprenditori e manager non sono considerati degni di fiducia. Purtroppo questi due fattori si amplificano a vicenda. Rigide norme sociali possono in parte supplire alla mancanza di enforcement, e un'applicazione rigida della legge può in parte supplire a una scarsa business ethic. Ma la carenza di entrambe è devastante.
Nel mio corso di Private Equity insegno un caso della Harvard Business School sull'acquisizione (avvenuta nel 1996) di Ducati da parte del fondo americano di private equity TPG. L'acquisizione rischia di abortire sul nascere perché la famiglia Castiglioni, che aveva firmato un accordo a trattare la vendita di Ducati in esclusiva con TPG, tiene i contatti aperti anche con altri potenziali compratori. Irritato da questo comportamento, TPG è sul punto di abbandonare la trattativa anche perché i costi della due diligence, necessaria prima di ogni acquisto, erano lievitati enormemente data la qualità della contabilità. È solo per l'ostinazione di un partner di TPG che la trattativa viene portata a conclusione con soddisfazione da entrambi i lati. Ma per un TPG che non desiste, quante ce ne sono che abbandonano e non investono nel nostro Paese?

Shopping24

Dai nostri archivi