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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:33.

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Piccolo è ancora bello? In Italia forse no. Ma a Wall Street certamente sì. Sembra incredibile, ma sul più importante mercato dei capitali del mondo, «piccolo» non è mai stato tanto bello.
Il denaro delle banche non manca, i fondi "privati" fanno a gara per entrare nelle imprese non quotate mentre i grandi gestori di portafoglio hanno addirittura triplicato il budget per gli acquisti in Borsa di titoli di piccole aziende quotate.

Per avere un'idea della portata del fenomeno, cresciuto all'ombra della crisi ed esploso finanziariamente con i primi segni di ripresa dell'economia americana, basta mettere a confronto la performance del Dow Jones, l'indice delle prime 30 multinazionali americane, con quella del Russell 2000: ebbene, l'indice che misura i prezzi azionari di 2.000 piccole aziende quotate è in rialzo del 32% sull'inizio dell'anno contro il 19% messo a segno dalle grandi di Wall Street. In pratica, non solo il rally dei "piccoli" ha una velocità pari a quasi il doppio delle "big 30" globali di Wall Street, ma ha bruciato tutti i record di ripresa degli ultimi 10 anni: rispetto al minimo toccato il 16 novembre del 2012 - cioè appena 12 mesi fa - il Russell 2000 è in guadagno del 46% e ancora non sembra perdere vigore.

Davanti a questi numeri, una domanda sorge spontanea: che cosa spinge i mercati americani a scommettere sul futuro della piccola impresa, un modello aziendale che ha avuto in Italia la sua massima espressione ma su cui ora, qui da noi, nessuno sembra più voler credere o incentivare? Una risposta intuitiva potrebbe essere che in un Paese senza politica industriale, prigioniero della burocrazia e con una pubblica amministrazione in ritardo cronico sui pagamenti, in recessione prolungata e con un credito bancario che funziona a singhiozzo, la piccola impresa è troppo fragile e vulnerabile per sostenere l'impatto della globalizzazione e competere alla pari sul mercato interno con le multinazionali. Gli esportatori, in questo contesto, sono l'eccezione che conferma la regola: le piccole aziende italiane che vendono all'estero la maggior parte dei loro prodotti non solo hanno resistito bene alla recessione, ma vengono presentate alla comunità finanziaria come un modello valido, competitivo e meritevole di sostegno.
Nessuno discute sul fatto che l'impresa italiana esportatrice abbia il merito di aver tenuto testa alla crisi. Senza il sostegno delle esportazioni, della tenacia di imprenditori che vanno ancora in giro per il mondo contando solo sulla qualità dei loro prodotti, il crollo della produzione industriale italiana - e quindi dell'occupazione - sarebbe stato ancora più drammatico di quanto oggi si percepisca. Sostenere le esportazioni, favorirne la crescita, è insomma una strada obbligata per l'Italia.

Ma il vero problema, e qui paradossalmente l'America insegna, è che la ripresa economica ha bisogno tanto degli esportatori quanto di imprese "domestiche", a prescindere dalla loro dimensione: anzi, come sta accadendo a Wall Street, sono proprio le piccole imprese che non esportano o che esportano poco quelle che presentano oggi le migliori prospettive di investimento per i mercati finanziari. Il motivo è semplice: più che alle dimensioni di impresa, i mercati guardano alla dinamica della domanda interna e al sostegno che i governi sono in grado di fornire a chi lavora, produce e vende all'interno dei confini nazionali. Ed è proprio quanto ha fatto l'amministrazione americana per sbloccare la crisi economica: non solo aiuti alle banche, ma soprattutto sostegno finanziario e fiscale agli investimenti e alla ricerca. Se l'indice delle piccole imprese corre in Borsa a Wall Street è proprio per questa ragione: oggi chi lavora solo in America - le aziende del Russell 2000 hanno l'80% del fatturato negli Usa - ha le stesse prospettive di crescita delle multinazionali e quindi il pieno sostegno del mercato finanzario. Per loro, se le banche non danno credito c'è sempre la Borsa che è pronta.

In base a questo principio, il sostegno all'economia interna (e alla piccola impresa domestica) è non solo la strada per uscire dalla crisi, ma anche la via per rivitalizzare il sistema finanziario nazionale: come sta accadendo in America, il sostegno allo sviluppo si riflette subito nelle performance delle società quotate, quindi nella raccolta di nuova capitali. Non a caso, mentre in America gli investitori scommettono sulle imprese domestiche, a Piazza Affari crescono solo le esportatrici: nel segmento Star, listino simbolo del made in Italy per l'estero, l'indice è salito del 44% dall'inizio dell'anno, in linea (ma con ragioni invertite) con il Russell 2000 di Wall Street. Per risollevare il Paese, l'industria e lo stesso mercato dei capitali, insomma, l'Italia ha bisogno non solo di investimenti sulla crescita, ma anche di politiche «a costo zero», mirate alla creazione di un contesto favorevole all'investimento in equity domestico e allo sviluppo di investitori istituzionali specializzati in piccole e medie imprese. Perchè il rischio – in assenza di sostegno alla domanda interna e senza investitori istituzionali domestici specializzati – è che anche le imprese quotate o in via di quotazione non trovino adeguato supporto per lo sviluppo. E allora piccolo non sarà più bello per nessuno.

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