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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2013 alle ore 08:10.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:33.
Ai tanti handicap competitivi che le imprese italiane devono da tempo fronteggiare (burocrazia, fisco, giustizia, costo dell'energia, infrastrutture, mercato del lavoro, credit crunch e costo del denaro, pagamenti delle Pa), se ne è aggiunto uno nuovo e non secondario: il ritardo nella digitalizzazione del Paese. I dati illustrati, qualche giorno fa, nel Digital Agenda Forum di Confindustria e nel convegno di Capri di Between sono preoccupanti: quasi tutti gli indicatori ci danno tra gli ultimi in Europa; e il distacco cresce.
Sui dati non vi è dissenso. Il dissenso è sulle cause: e innanzitutto se il problema sia di domanda, di offerta, o di entrambe insieme.
Alcuni pongono l'accento sulla debolezza della domanda. La colpa sarebbe dunque di imprese e Pa, refrattarie, in Italia, all'innovazione tecnologica. I più pensano invece che il problema sia innanzitutto (o anche) sul versante dell'offerta. E in primis nelle infrastrutture di rete. Francesco Caio ha parlato addirittura di un rischio di "osteoporosi" della rete. Da parte di TelecomItalia e di Fastweb si è replicato che gli investimenti sulla rete sono adeguati alla domanda; ma la domanda effettiva di banda larga è in Italia molto inferiore a quella degli altri Paesi europei. Per quasi tutti gli altri, invece, gli investimenti nella rete sono largamente insufficienti. Conclusione supportata proprio da un dirigente di Telecom Italia, che ha dimostrato che siamo tra gli ultimi quanto a connessione delle scuole alla banda larga, condizione abilitante per la rivoluzione didattica che internet e le Ngn già consentono in altri Paesi.
Coesistono al riguardo, legittimamente, tre approcci diversi. Il business model degli operatori di servizi di Tlc è oggi, quasi sempre, un modello di breve periodo: si investe solo quando c'è la domanda, perché azionisti e investitori pretendono ritorni elevati nel breve termine (o perché si deve far fronte a un elevato indebitamento); ciò è vero soprattutto se gli investimenti sono rilevanti e se non si deve fronteggiare una sfida competitiva (perciò, in Italia, si investe molto nel mobile, poco nel fisso). Diverso è il business model degli investitori infrastrutturali: chiedono ritorni sicuri, ma nel medio-lungo termine; anticipano la domanda, se prevedono che sta arrivando. Il terzo dovrebbe essere l'approccio della (buona) politica: se la rete fissa di nuova generazione (Ngn) è un'infrastruttura essenziale per la crescita e la competitività del Paese e per la produttività delle imprese, occorre garantire gli investimenti necessari con risorse pubbliche (come in Australia e in Cina), o creando le condizioni per attrarre capitali e finanziamenti privati. Forse non è vero che, nel settore, l'offerta crea la domanda (così invece Passera a Capri). Ma è probabilmente vero che l'offerta libera la domanda latente; e che la mancata offerta la paralizza.
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