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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2013 alle ore 07:11.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2013 alle ore 07:38.

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Per un Paese che dalle vendite di petrolio e gas ricava il 96% delle entrate governative e il 97% dell'export (in valore), non ci poteva essere notizia peggiore. L'ennesimo crollo delle esportazioni dalla Libia rappresenta non solo un danno ingente per il fragile Governo di Tripoli, ma anche un fattore destabilizzante - e potenzialmente rialzista - per i mercati petroliferi mondiali. Ciò che sta avvenendo sulla sponda sud del Mediterraneo è motivo di grande preoccupazione anche per l'Italia, il Paese che più degli altri aveva ricucito con successo il cordone ombelicale energetico che lo lega da decenni all'ex regno di Muammar Gheddafi.

Già nel gennaio del 2013, quindici mesi dopo la morte di Gheddafi, la Libia forniva all'Italia il 23% circa delle sue importazioni, una quota percentuale simile ai livelli precedenti la rivolta scoppiata nel febbraio del 2011. Secondo gli ultimi dati dell'Unione petrolifera, a settembre le importazioni da Tripoli sono cadute a 341mila tonnellate di greggio. Il calo rispetto alle 1.270 tonnellate acquistate in maggio parla da solo.

L'Eni è storicamente il primo operatore straniero in Libia. Poco dopo la fine della rivolta la major energetica italiana era riuscita a riavviare l'export di gas. E aveva le carte in regola per aggiudicarsi alcuni dei nuovi contratti di esplorazione che dovrebbero essere assegnati l'anno prossimo.

Disordini permettendo. Perché l'ultimo "effetto collaterale" della primavera incompiuta che sta paralizzando la "nuova Libia" è quello che tutti speravano non si avverasse mai: un duro colpo assestato all'industria petrolifera.

Per come si stavano mettendo le cose, forse c'era da aspettarselo. Eppure l'inizio era stato più che promettente. A dispetto del pessimismo mostrato dagli analisti internazionali, la rinascita del settore energetico libico aveva sorpreso per la sua capacità di ripresa. Tanto che, nell'ottobre del 2012, la compagnia petrolifera statale, la Noc, aveva annunciato che la produzione era ritornata ai livelli precedenti la rivolta. Dopo un periodo di incertezza caratterizzato da alti e bassi, alla fine dello scorso luglio la situazione è precipitata. Una serie di scioperi e proteste ha paralizzato l'attività dei terminali per l'export.

In ottobre il premier libico Ali Zeidan è in parte riuscito a ricucire lo strappo con le milizie ribelli che gestiscono la sicurezza degli impianti, riportando la produzione intorno ai 500-600mila barili. Ma nel corso dello scorso week end una nuova ondata di proteste e di disordini ha nuovamente travolto i porti e gli impianti, estendendosi anche nelle regioni occidentali.

Secondo fonti libiche consultate dall'agenzia Reuters lunedì si è verificato un crollo verticale delle esportazioni, cadute a 90mila barili al giorno. Per avere un'idea basti pensare che prima dell'estate la Libia vendeva all'estero 1,2 milioni di barili al giorno.

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