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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2013 alle ore 07:11.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2013 alle ore 07:38.

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Ciò che preoccupa è la durata di questa crisi. Sono ormai tre mesi che va avanti, e le prospettive non sono incoraggianti. Il danno per le major straniere è ingente. «In Libia stiamo perdendo molta produzione. Quella attuale è di 135mila barili al giorno. Ne perdiamo 120mila al giorno. La situazione non è molto buona e non sappiamo cosa può accadere nei prossimi giorni; tuttavia siamo ottimisti nel medio-lungo termine. C'è un processo di transizione in corso e c'è una grande potenzialità», ha dichiarato il direttore della divisione E&P di Eni, Claudio Descalzi, nel corso della conference call con gli analisti sui risultati del terzo trimestre. Nonostante il calo degli utili nei primi nove mesi dell'anno, l'Eni è dunque intenzionata a restare. Ma non tutti la pensano così. Spaventate per il deterioramento delle condizioni di sicurezza, altre major hanno ridotto la loro attività nel Paese, come il colosso energetico americano Exxon Mobil. Se l'anglo-olandese Shell aveva sospeso le trivellazioni già l'anno scorso, abbandonando l'attività di esplorazione in due blocchi, fino a pochi giorni fa l'americana Marathon, secondo voci di mercato, stava valutando di cedere la sua quota di partecipazione nel consorzio di Waha.

Per i prossimi mesi, a essere ottimisti, la Libia non sarà più quell'affidabile partner energetico che riforniva il Paese più dipendente d'Europa dagli approvvigionamenti all'estero, vale a dire l'Italia. «Si sta sottovalutando quanto sta accadendo in Libia - ha spiegato al Sole 24 Ore Michele Marsiglia, presidente di Federpetroli - Secondo i nostri dati le forniture libiche sono scese dal 23 al 12% del nostro import complessivo. Quando va bene. Perché la produzione continua a procedere a singhiozzo. Anche sul fronte del gas sono attivi solo i giacimenti offhore, con una conseguente perdita di circa il 40% del metano che importiamo».

C'è a questo punto da chiedersi quando e come finirà. Gli ultimi disordini sono la prevedibile conseguenza degli attriti sempre più gravi tra Tripolitania e Cirenaica. La regione dove ha sede il Governo di Tripoli, non vuole sentir parlare di federalismo, e accusa la Cirenaica di ospitare pericolosi movimenti estremisti islamici, fino a cellule legate ad al-Qaeda. A sua volta la Cirenaica, la regione orientale da cui è partita la rivolta contro Gheddafi - e dove da tempo soffiano pericolosi venti secessionisti - rivendica una maggiore rappresentanza nei futuri assetti politici della Nuova Libia e maggiori entrate energetiche.

Scontenta per il mancato pagamento di salari e arretrati, e per la minaccia del Governo di voler sospendere i loro pagamenti, l'organizzazione a cui il Governo aveva dato in gestione la sicurezza degli impianti e dei giacimenti nella Libia Orientale, il Petroleum facilities guard (Pfg), aveva indetto una valanga di scioperi, culminati nella chiusura dei due principali terminal nazionali per l'export del petrolio dalla Cirenaica. In realtà il Pfg non è nient'altro che un nuovo nome affidato a una preesistente e potente milizia di ribelli della Cirenaica guidata da un popolare leader contraddistintosi nella rivolta armata, Ibrahim al Jathran. Ora quest'uomo, che a soli 33 anni è in grado di decidere quando e come le esportazioni devono procedere, esige che sia la Cirenaica, e non Tripoli, a disporre dei proventi energetici. La sua operazione di boicottaggio è già costata alle casse di Tripoli cinque miliardi di dollari. Agli occhi delle milizie il governo è reo di gravi atti corruzione. Il fragile esecutivo respinge le accuse e contrattacca: è la Pfg ad aver venduto il petrolio in nero, arrecando un danno incalcolabile alla nuova Libia. Minacciando di ricorrere all'aviazione, in settembre aveva già schierato la marina per impedire alle navi "illegali" di lasciare le coste della Cirenaica.

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