Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 12 novembre 2013 alle ore 07:25.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:41.

My24

Questo racconto non è certamente autocelebrativo. Anzi, come lo stesso Bulgheroni tiene a precisare, è solo un modo per lanciare almeno due messaggi al Paese: il primo è che la forza dell'impresa italiana è sempre stata la capacità di individuare gli spazi liberi dei mercati per entrarci con «qualità, tradizione, origine e passione»; il secondo è che le grandi imprese, le multinazionali, non vengono in Italia per colonizzare, ma per crescere e far crescere le imprese in cui investono. «L'esempio della mia famiglia - aggiunge Bulgheroni - può aiutare a capire meglio l'importanza di quanto dico. Cominciai a lavorare in azienda il 6 novembre 1968. Allora, mentre frequentavo ancora l'università, mio padre non si sentì bene e mi chiese di aiutarlo in azienda. La verità l'ho capita dopo: mio papà aveva solo paura che io me ne andassi da un'altra parte e non proseguissi il lavoro nell'azienda di famiglia. Ho continuato a giocare a pallacanestro, la mia passione, fino al '70, quando sono andato da mio papà per dirgli che se avesse voluto tenermi a lavorare nell'azienda di famiglia avrei smesso di giocare a pallacanestro, la cosa che mi piaceva di più al mondo, ma avrebbe dovuto offrirmi la possibilità di "misurarmi". Penso che questa volontà di "misurarmi" nelle sfide mi derivi dallo sport. Devo ammettere che mio padre fu eccezionale. Mi valutò immediatamente, senza farmelo capire, e nel 1972 mi affidò la carica di amministratore delegato. Lui mantenne la carica di presidente, ma senza recarsi più in azienda».

Come è maturata la decisione di vendere alla Lindt?
«Nel 1992, due anni dopo la scomparsa di mio padre, l'allora dottor Sprüngli, figlio del fondatore che aveva stretto l'accordo con mio padre, mi chiese di acquistare l'azienda, perché volevano costituire una holding. Sul piano personale quel momento è stato forse il più difficile della mia vita. Io sono figlio unico e i miei figli avevano circa vent'anni e ovviamente il valore dell'azienda era abbastanza consistente. Decisi allora di andare dal dottor Sprüngli e gli dissi che non volevo dei soldi. Non avrei mai pensato di monetizzare quello che era stato il lavoro di mio padre per una vita e il mio per vent'anni. Inoltre mi resi conto che uno come me, che è nato nel cioccolato, non può fare il manager da qualche altra parte. Da queste riflessioni scaturì la decisione di accordare un cambio di azioni. La famiglia Sprüngli mi chiese di rimanere continuando a ricoprire la carica di presidente e amministratore delegato per dieci anni. In realtà ho proseguito per diciotto anni. Due anni fa, e questa è una regola per me molto importante, prima che qualcuno mi battesse la mano sulla spalla dicendomi che era giunto il momento di andarsene, me ne sono andato io».
Per modo di dire è andato via...
«Mettiamola così: il salto familiare da imprenditori a manager e infine ad azionisti del gruppo Lindt ha trasformato una piccola azienda italiana nel fulcro industriale di un colosso multinazionale. E la mia famiglia è oggi azionista di una realtà dove il padrone non sono più le famiglie Lindt e Sprüngli, che hanno venduto le loro azioni, ma addirittura il fondo pensioni del gruppo che oggi detiene il 25% del capitale. Io faccio parte del board e come membro del comitato esecutivo del gruppo partecipo alla definizione di piani e strategie».

Come ha reagito la sua famiglia a questa trasformazione di ruolo? Siete piccoli azionisti di un colosso ma non avete più un'azienda di famiglia...
«Il salto di qualità ha riguardato tutti e sono orgoglioso delle scelte fatte dai miei figli. Edoardo, nato nel 1970, ha lavorato 6 anni nella holding Lindt e oggi è artefice dell'espansione dei negozi monomarca del gruppo; Gianantonio, nato nel 1971, si occupa delle altre attività di famiglia dopo aver lavorato come banchiere del Santander; Anna, nata nel 1977, è dirigente del colosso delle bevande InBev e lavora a Brema. Sotto un certo profilo, visto che la famiglia Lindt ha venduto, gli eredi del nucleo industriale storico del gruppo oggi siamo noi».

Dopo la decisione di vendere, quale è stato l'evento più significativo nel rapporto con la Lindt?
«C'è soprattutto un'impresa della quale vado molto orgoglioso. Prima di dimettermi dalla carica di amministratore, sono riuscito a convincere il gruppo a investire in Italia per sviluppare gli impianti di fabbricazione delle Boule Lindor per tutto il gruppo Lindt. La soddisfazione più grande è che, pur nel contesto del nostro Paese, siamo l'azienda che riesce a produrre le Boule Lindor al minor costo. Non è dunque completamente vero che in Italia non si possano fare le cose: se le fai bene, pur in assenza di alcun aiuto, puoi arrivare lo stesso a ottenere dei buoni risultati. Oggi produciamo nello stabilimento di Induno Olona circa 28mila tonnellate di cioccolato, di cui più del 70% per cento per il gruppo Lindt; quando sono entrato in azienda erano appena duecento».

Shopping24

Dai nostri archivi