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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2013 alle ore 13:55.
L'ultima modifica è del 25 novembre 2013 alle ore 12:07.

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Il 4 giugno 2009 all'Università del Cairo il presidente Barack Obama, eletto da meno di un anno, faceva il suo primo atteso discorso al mondo islamico: «sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio fra Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo»; portava il «saluto di pace delle comunità musulmane» del suo Paese «assalamu alaykum»; elencava Teheran terzo fra i punti di tensione dopo la guerra in Iraq e la questione israelo-palestinese. «Da molti anni - disse - l'Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti». Ammise e ricordò: «Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l'Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto». Tese la mano: «Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l'Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire».

Sono passati cinque anni e la primavera araba: al Cairo dopo la rivoluzione comandano di nuovo i generali; Obama non è più un giovane promessa mondiale, Nobel per la Pace appena insediato, ma un presidente al secondo mandato in calo nei sondaggi indebolito da problemi interni - la spesa federale e riforma sanitaria, sua battaglia - e danni d'immagine internazionali: l'attentato di Bengasi, vittima l'ambasciatore americano Chris Stevens, rivelò inadeguata la dottrina leading from behind teorizzata a Washington dal team del presidente; lo scorso settembre la marcia indietro dopo la minaccia dei raid sulla Siria fa di Putin il leader più potente del mondo (timbro, la rivista Forbes) e interlocutore di Papa Francesco che oggi lo riceve a Roma.

Il 24 novembre 2013, Obama incassa una vittoria sì provvisoria ma che può dire sua perché ha sempre predicato il valore del dialogo: «La diplomazia ha aperto una nuova strada per rendere più sicuro il mondo», mentre il suo segretario di Stato, John Kerry, definisce l'accordo di Ginevra un «primo passo» per la stabilità nel Medio Oriente.

Dopo anni di stallo e quattro giorni di negoziati, Teheran si impegna con il gruppo del 5+1 e ottiene un allentamento delle sanzioni che strangolano la sua economia. Un accordo di sei mesi (qui i punti chiave e il testo in inglese) già definito «storico». Partner e protagonista di Obama è il presidente iraniano Hassan Rohani, in carica da pochi mesi, da subito sospettato di essere solo un esecutore di Ali Khamenei, meno estremista di Ajmadinejad ma troppo debole e non interessato a un nuovo corso. Con l'avallo della Guida Suprema, Rohani mette invece in pratica "l'apertura al mondo" annunciata qualche mese fa con una lettera al Washington Post in occasione del viaggio a New York per l'Assemblea Onu: «Non abbiamo mai voluto la bomba atomica, il motore di questo governo è la costruttiva interazione con il mondo». Sembra vero.

L'accordo va parzialmente incontro a Teheran che chiedeva da tempo un allentamento delle sanzioni anti-nucleari che strangolano la sua economia ma che scontenta Israele. Da Teheran Rohani, la cui elezione ha permesso di sbloccare un dossier in stallo da un decennio, ha detto che l'accordo rispetta il diritto iraniano al nucleare civile e porterà entro un anno alla completa cancellazione delle sanzioni con positive ripercussioni per gli iraniani. La valuta iraniana si è subito apprezzata del 3% sul dollaro, bene anche la borsa di Israele.

Il resto del mondo applaude. Pechino dichiara che l'intesa «salvaguarderà la pace»; il presidente francese Francois Hollande la definisce una «tappa verso l'arresto del programma militare nucleare iraniano». «Buono per il mondo intero» e il giudizio espresso dal capo del Foreign Office britannico, William Hague; «Teheran è più lontana dall'avere una bomba atomica e si dimostra che con la costante diplomazia e le dure sanzioni possiamo far avanzare il nostro interesse nazionale» dice il premier Cameron. Il ministro degli Esteri italiano Emma Bonino parla in un tweet di «passo importante per la pace in Medio Oriente». Il presidente del Consiglio Ue, Herman Van Rompuy, riconosce «il coraggio» delle parti ma sottolinea l'importanza di attuare l'accordo «entro i tempi». L'accordo «contribuirà alla soluzione definitiva della questione e quindi lo sosteniamo», twitta il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu.

Scontento del governo israeliano: il premier israeliano Benyamin Netanyahu parla invece di «errore storico» che rende oggi il pianeta «più pericoloso» (l'opposto di quanto sostenuto da Obama): l'Iran, sostiene, «ha ottenuto esattamente quello che voleva» cioè «alleviare in modo sostanziale le sanzioni e mantenere componenti importanti del proprio programma nucleare». Diversa la reazione dell'Autorità nazionale palestinese: «da Ginevra arrivao un messaggio a Israele, che la pace è l'unica opzione» dice il portavoce di Abu Mazen, auspicando che sia presto riattivato anche il Quartetto per la soluzione del conflitto israelo-palestinese.

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