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Questo articolo è stato pubblicato il 25 novembre 2013 alle ore 08:57.
L'ultima modifica è del 25 novembre 2013 alle ore 09:50.

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La violenza contro le donne si scatena quasi sempre all'interno delle mura domestiche. L'autore è nel 48% dei casi il marito, nel 12% il convivente nel 23% l'ex; si tratta poi di un uomo tra i 35 e i 54 anni nel 61% dei casi, di un impiegato nel 21%, e di una persona istruita (il 46% ha la licenza media superiore e il 19% la laurea). Il persecutore non fa poi in genere uso di alcol e di droghe (63%).

Una vergognosa conta, quella delle donne vittime di violenza, che quest'anno é arrivata a quota 128, con una rapida escalation: ad agosto risultavano un'ottantina di casi e le richieste di aiuto di donne vittime di stalking al numero attivato da Telefono Rosa sono aumentate nei primi sei mesi del 2013 di circa il 10%. Anche il profilo della donna-vittima descrive una persona piuttosto normale: una donna di età compresa fra i 35 e 54 anni, con la licenza media superiore nel 53% e la laurea nel 22%. Percentuali e numeri amplificati da altri numeri. La violenza subita dalle donne ogni anno ha, infatti, un costo economico e sociale di quasi 17 miliardi di euro, l'equivalente di tre manovre finanziarie, il triplo della spesa pagata dal nostro paese ogni anno per incidenti stradali. A stimare questo prezzo, altissimo, è l'indagine nazionale «Quanto costa il silenzio?» presentata nei giorni scorsi da Intervita onlus.

Dei 16,719 miliardi di euro spesi ogni anno a causa della violenza di genere, 2,377 sono costi diretti: sanitari (460,4 milioni), consulenza psicologica (158,7 mln), farmaci (44,5 mln), ordine pubblico (235,7 mln), giudiziari (421,3 mln), spese legali (289,9 mln), costi dei servizi sociali dei Comuni (154,6 mln) e dei centri antiviolenza (circa 8 milioni). La mancata produttività è stimata invece in 604,1 milioni di euro. Soprattutto il dato sulle spese sanitarie, secondo Intervita, è sottostimato: perchè solo il 3,3% delle vittime ha fatto ricorso a cure ospedaliere. Il 96,7% di episodi di violenza non ha dato luogo a ricoveri, ma molto probabilmente ha determinato conseguenze sulla salute e prodotto costi.

Il prezzo della violenza, però, lievita soprattutto a causa dei costi non monetari: si calcola in 14,3 miliardi di euro il costo umano, emotivo ed esistenziale sostenuto dalle vittime, dai loro figli e familiari. Include l'impatto della violenza sui bambini, l'erosione del capitale sociale, la riduzione della qualità della vita e della partecipazione alla vita democratica.

La violenza sulle donne passa anche attraverso le disparità nel lavoro: lo ricorda AlmaLaurea, consorzio di 64 atenei italiani, in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Nella classifica mondiale sulle disparità uomo-donna l'Italia è all'80/o posto, dopo Perù e Cipro: dati del Gender Gap Index, l'indice del World Economic Forum che misura le differenze fra sessi in 135 paesi.

Se come tutela della salute e istruzione la parità tra i generi si può dire raggiunta, sulla situazione politica, economica, professionale la strada da percorrere è ancora molto lunga. Il quadro non cambia se le donne sono più istruite degli uomini. Fra la popolazione dai 30 ai 34 anni le giovani con laurea sono il 24,2% contro il 15,5% dei maschi: quasi nove punti che contano assai poco. Tra i laureati specialistici biennali, già a un anno dalla laurea lavorano 55,5 donne e 63 uomini su cento, 7,5 punti di handicap al femminile. A un anno dal titolo, i laureati uomini possono contare più delle colleghe su un lavoro stabile (39 a 30%) e guadagnano il 32% in più (1.220 euro contro 924 euro mensili netti). A cinque anni dalla laurea lavorano 83 donne e 89 uomini su cento (6% di differenza).

Il posto stabile è prerogativa tutta maschile. A cinque anni può contare su un'attività stabile l'80% degli occupati maschi e il 66% delle femmine. Tra uno e cinque anni dal conseguimento del titolo, le differenze di guadagno aumentano ulteriormente: il divario cresce al 30%, 1.646 contro 1.266 euro. Le laureate con figli lavorano e guadagnano meno rispetto alle colleghe senza prole. Se lavora l'89% dei padri e solo il 72% delle madri, la differenza di genere scende da 17 a 7 punti tra uomini e donne senza figli: 61% contro 54. Anche nel confronto tra laureate, chi ha figli risulta penalizzata: a cinque anni dal titolo lavora l'81% delle laureate senza prole e 69 di quelle con figli (differenziale di 12 punti). Il differenziale retributivo è del 14% a favore delle laureate senza figli: 1.247 euro contro 1.090. La percentuale vale per tutte le categorie sociali: fra i 24 e i 55 anni le donne lavoratrici con figli sono il 55%.

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