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Questo articolo è stato pubblicato il 27 novembre 2013 alle ore 08:11.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:49.

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Il vice ministro dell'Economia, Stefano Fassina (Pd), ha dato prova di onestà intellettuale quando in aula al Senato ha detto che la Legge di stabilità «non risolve tutti i problemi del Paese e non risolve i problemi più drammatici del Paese» e che «ben più robusti interventi sarebbero stati necessari» sul fronte della riduzione delle tasse (ammesso che di questo si tratterà, aggiungiamo).

Fassina ha difeso «l'inversione di tendenza» dopo molti anni, ma molto oltre non è andato. Né avrebbe potuto andare, realisticamente. La Legge di stabilità, blindata con il solito maxiemendamento "gratta, vinci o perdi" da ultima spiaggia e catapultata in un Aula in tensione sul caso della decadenza di Berlusconi, non è risolutiva, e non solo perché passa ora all'esame della Camera.
Non sarà il «placebo mediatico» come asserito dai grillini del M5Stelle né la caverna degli orrori come urlato da Forza Italia tornata all'opposizione. Però non è neanche la soluzione dei problemi posti a vario titolo dai cittadini, dalle imprese, dalla Commissione europea ed in genere dalla comunità internazionale.
Di questo il Governo Letta, che nel cambio di maggioranza vede una maggiore coesione politica, deve prendere atto lasciando nel cassetto le difese d'ufficio. Un Paese che ha perso dal 2007 quasi dieci punti di Prodotto interno lordo e che appare ancora oggi inchiodato ad un destino di stagnazione sociale e industriale, necessita, e merita, molto di più di una legge dalla stesura instabile a dispetto del nome che porta e calibrata, evitando scelte forti, per cercare il massimo del consenso trasversale.

Vedremo nei dettagli come sono distribuiti pesi e misure. Ma dal maxiemendamento 1.900, che come di di consueto andrà decriptato nemmeno fosse il codice Enigma, affiorano i reperti di una strategia dimostratasi insufficiente e comunque da rivedere con attenzione. Vale nel caso della tenuta delle coperture finanziarie, dopo che lo stesso presidente della Commissione Bilancio, Antonio Azzollini, ha verificato che non c'è violazione dell'articolo 81 della Costituzione, che i saldi sono rispettati, ma che sono emerse delle «criticità».
E vale nel caso di certi facili scambi, a metà strada tra zampata equo-distributiva e "vorrei ma non posso", come la manovra sulle "pensioni d'oro" per finanziare una prova di reddito minimo garantito del valore di 40 milioni l'anno. Non mancano poi le ricorrenti attenzioni rivolte al Sud dove il concetto dello sviluppo degrada però a mancia costosa. I 110 milioni stanziati per il 2013 e 2014 per i lavori "socialmente utili" in Calabria ne sono un plastico esempio.
Infine, a latere della Legge di Stabilità, resta ancora aperta la pagina dell'abolizione della seconda rata Imu prima casa 2013 la cui sostenibilità è basata, tra l'altro, sulla parallela rivalutazione delle quote Bankitalia in possesso delle banche, sollecitata (non a torto, se non vogliamo fare della facile demagogia) dagli istituti di credito visto che saranno loro assieme alle assicurazioni a dover a pagare il blocco Imu con gli aumenti degli anticipi fiscali.

Se aggiungiamo la partita aperta sulla spending review, che deve ancora entrare nel vivo, e quella da perfezionare sulle (cosiddette) privatizzazioni, ricaviamo che il passaggio della Legge di stabilità alla Camera può essere o l'ultima occasione per ribaltare una manovra che al momento delude per incisività e spinta riformista o la conferma di un galleggiamento che non sblocca l'Italia e non porta lontano.
La risposta positiva del premier Enrico Letta all'appello delle parti sociali sul cuneo fiscale (le risorse della spending review vincolate al taglio delle tasse su lavoro e imprese) lanciato domenica sul Sole 24 Ore mostra che il Governo intende cambiare passo. Ma siamo davvero alla mano finale e decisiva della partita. Non contano più gli annunci, e le messe a punto che rinviano ad un altro punto. Contano solo i fatti.
guido.gentili@ilsole24ore.com

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