Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 29 novembre 2013 alle ore 08:00.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:51.

My24

Se si digita su Google «premiare il merito» si ottengono, in meno di mezzo secondo, circa 1 milione e 250 mila risultati. Per distinguere in questa selva la retorica vuota dalle intenzioni serie bisognerebbe capire in quali casi chi parla di premiare il merito ha definito in che modo individuarlo, quali risorse usare, chi sono i destinatari del premio. Il ministero dell'Università e della ricerca sembrava sulla buona strada. Ha messo in piedi un'agenzia di valutazione autonoma (l'Anvur) che ha fatto un lavoro colossale in tempi relativamente rapidi, l'esercizio di valutazione della qualità della ricerca.

Ha scelto un criterio di misurazione chiaro e non ambiguo (almeno per quel che riguarda la valutazione della ricerca; quanto alla didattica, l'altro fondamentale prodotto dell'università, c'è molto da fare). Ha indicato, per quest'anno e per quelli a venire, le quote del Fondo di finanziamento ordinario dell'università (FFO) destinate a premiare gli atenei migliori. Ha pubblicato delle graduatorie esplicite e impietose, con forti differenze nella qualità misurata tra le varie strutture. Ciascuno di questi passi è criticabile, certo; ma non è questa la sede per farlo. Qui preme valutare se alle intenzioni e agli impegni seguano fatti coerenti. In primo luogo, quando si premia il merito inevitabilmente si penalizza il demerito. In un paese che cresce, quando le risorse disponibili aumentano da un anno all'altro, è possibile premiare i migliori senza ridurre, in valore assoluto, le risorse a disposizione dei peggiori (sarebbe solo una riduzione in termini relativi).

Se, però, l'aumento (percentuale) delle risorse è inferiore alla quota destinata a premiare il merito, una parte delle risorse da attribuire ai migliori deve necessariamente provenire da risorse sottratte ai peggiori; nel caso in cui l'aumento delle risorse sia nullo, il premio ai più virtuosi deve venire per intero dalla penalizzazione dei meno virtuosi. Ora, se andiamo a guardare il decreto ministeriale n. 700 dell'8 agosto scorso, che stabilisce in che modo attribuire la cosiddetta «quota premiale» dell'FFO del 2013, troviamo una «clausola di salvaguardia» secondo la quale non può determinarsi, per nessun ateneo, una riduzione dell'FFO complessivo in misura superiore al 5 per cento del valore dell'anno precedente. Questo però vuol dire che l'aumento della quota premiale dell'FFO indicato nella legge 98/2013 (il «decreto del fare»), dal 13,5 per cento quest'anno fino al 30 per cento nel 2021, appartiene più alla categoria della vuota retorica che a quella delle intenzioni serie: se supponiamo (in modo forse ottimistico) che l'FFO complessivo resti costante, la clausola di salvaguardia implica che non ne sarà mai disponibile, a fini premiali, più del 5 per cento.

In secondo luogo, un premio dovrebbe migliorare la situazione di chi è premiato. Eppure il D. M. 700 recita: «A ciascun ateneo non potrà comunque essere disposta un'assegnazione dell'FFO superiore a quella dell'anno 2012». Nel migliore dei casi, l'ateneo premiato riceve le stesse risorse dell'anno precedente (non è chiaro se questa disposizione si applichi anche per gli anni a venire). In sostanza, limitando la penalizzazione dei peggiori e mettendo un tetto al premio dei migliori, di spazio per premiare il merito ne resta ben poco: è un po' come se i giudici di una gara distribuissero soltanto medaglie di bronzo, una per ogni partecipante.
In terzo luogo, se la ricerca e l'istruzione superiore sono, come tutti sostengono, vitali per la crescita del Paese, ci si aspetterebbe che su di esse si investa, indirizzando le risorse sui migliori. Invece l'FFO complessivo si sta progressivamente riducendo. In particolare, nel 2013 ha subito un taglio del 4,7 per cento. Se quindi non si può scendere (per nessuno) più del 5 per cento, e ciascuno è già stato tagliato del 4,7 per cento, resta solo uno 0,3 per cento di possibile margine per trasferire risorse dai peggiori ai migliori, meno di 20 milioni per l'intera università italiana. È un margine esiguo.

L'Italia è un paese che non ha l'abitudine di premiare il merito. Cominciare a farlo è indispensabile. Ma bisogna farlo sul serio, altrimenti si alimenta lo scetticismo di chi dice che è impossibile, e si offre buon gioco a chi vi si oppone perché sa che ne sarebbe penalizzato. Aboliamo le clausole di salvaguardia e i tetti; smettiamo di tagliare sull'università; e comunque, fino a che non l'avremo fatto, sfruttiamo al massimo lo spazio di differenziazione, concentrando le «risorse premiali» sui migliori, per esempio i primi due atenei in ciascuna delle tre classi dimensionali considerate dall'Anvur.

Commenta la notizia

Shopping24

Dai nostri archivi