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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2013 alle ore 08:45.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:52.

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Il passaggio politico che si prospetta per il governo è delicato, ma tutti hanno capito che la posta in gioco non è la stabilità della coalizione. Su questo non ci sono al momento veri timori. Del resto il voto di fiducia dell'altro giorno ha dimostrato che i numeri della maggioranza ristretta esistono e sono piuttosto solidi. Chi si compiace per la fine delle "larghe intese", dovrà ammettere che oggi le elezioni anticipate non sono più vicine di una settimana fa, sono anzi assai più lontane.

Che cosa allora rende delicato il passaggio parlamentare? Il fatto che si tratta della prima, seria verifica all'interno del Pd, ormai forza egemone dell'alleanza di governo. Non a caso Letta si sta sforzando di collocare il dibattito parlamentare dopo l'8 dicembre, ossia dopo la prevedibile consacrazione di Renzi come nuovo leader dei democratici. Ma, come è naturale, la nuova opposizione di Forza Italia non ha voglia di assecondarlo. Si può capire. Il giorno dopo aver ottenuto dal capo dello Stato il via alla cosiddetta verifica parlamentare, che nella sostanza è una mezza crisi di governo (solo mezza, per la verità), i seguaci di Berlusconi non sono felici di vedere che la loro conquista serve a Letta per rinegoziare i patti con Renzi. È probabile che il premier abbia sbagliato a collegare in maniera esplicita il dibattito in Parlamento con l'elezione del nuovo leader del Pd. Se avesse usato un altro argomento per posticipare di qualche giorno la "verifica", tutti avrebbero intuito ugualmente la verità, ma si sarebbe risparmiato le polemiche. È chiaro d'altra parte che il passaggio in Parlamento, a questo punto, non può essere una mera formalità. Deve invece delineare la "fase due" del governo, quasi un Letta-bis.

Tuttavia un simile salto presupporrebbe una vera e propria crisi, con dimissioni del premier e dei suoi ministri. Un sentiero che si sa dove comincia, ma non dove porta. Ad esempio, uno degli effetti di un governo rigenerato dalla crisi sarebbe il dimagrimento dei ministri assegnati al gruppo di Alfano. Dopo la scissione sono tutti passati con il "Nuovo centrodestra", ma oggi rappresentano un numero assai più esiguo di parlamentari. Di conseguenza Alfano è logicamente contrario a qualsiasi rimpasto e a maggior ragione a una crisi di governo. Letta non ha motivo di smentirlo e però dovrà presentarsi in Parlamento mettendo, in un certo senso, a disposizione il suo mandato.

Non sarà dimissionario, il presidente del Consiglio, ma dovrà comportarsi come se stesse rinegoziando dalle fondamenta il patto e il programma di governo. In altri termini, la verifica non può sembrare un negoziato tutto interno al Pd, un modo per far uscire allo scoperto Renzi e stringerlo in un accordo destinato a durare un anno e mezzo. Certo, il passaggio è soprattutto questo, ma occorre dare l'impressione che il governo non è una sorta di monocolore del Pd. È vero che il gruppo alfaniano e anche Scelta Civica non hanno altre carte da giocare, al momento, che non siano il pieno sostegno a Letta. Ma le apparenze vanno salvate. Il premier dovrà convincere non tanto le Camere, quanto l'opinione pubblica che il programma è stato rinnovato e reso più efficiente. E che tutto ciò è avvenuto grazie all'uscita di scena di Berlusconi e al concorso dei vari soci della coalizione.

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