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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2013 alle ore 14:10.
L'ultima modifica è del 01 dicembre 2013 alle ore 14:22.

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L'Europa si trova strutturata in una sorta di immoto e inamovibile triangolo scaleno, dove il solo lato funzionante è rappresentato dai mercati della finanza speculativa globale, tenuti a bada dalla solitaria lungimirante e a volte anomala Bce. L'altro lato, quello della politica, è bloccato e incapace, in mancanza di una univoca politica bancaria, fiscale ed economica, a costituire la protezione istituzionale della Bce, unico tutore della moneta unica, il traballante euro. Il terzo lato è rappresentato da quelle politiche, scoordinate l'una dall'altra e spesso con gravi deficit di democrazia interna, che rimangono nella sovranità dei singoli Stati, costretti ormai, persino a livell0 costituzionale, a perseguire una politica economica di austerità, imposta dalla troika a tutela dei mercati e delle loro speculative istituzioni finanziarie.

All'interno della giostra di questo triangolo ha operato finora, con decisione, la Germania, costante punto di riferimento per i destini d'Europa, costretta ancora a una leadership che da almeno un secolo le è piombata addosso, non sempre in virtù di una sua entusiastica volontà, sicché sembra oggi, con poca grazia, volerla rifiutare.
È tuttavia, dalla riunificazione delle due Germanie, nel 1990, con la spinta francese del presidente Mitterrand, timoroso certo del nuovo Stato tedesco, e la lungimiranza politica di Helmut Kohl, che le parole del grande Thomas Mann: «Non un'Europa tedesca, ma una Germania europea» venivano ripetute ad nauseam, quando ogni cittadino tedesco si sentiva e si dichiarava cittadino europeo. Purtroppo, a più di vent'anni di distanza, il progetto, o forse il sogno, europeo, è rimasto ridotto all'Unione monetaria, sicché la moneta unica, mancando di sostegni istituzionali e politici, è stata incapace di far fronte alla grande crisi del 2008, mentre negli Stati membri debitori l'eterodiretta politica di austerità ha provocato profonde disuguaglianze, inaudite disoccupazioni, e uno stato economico di pericolosa deflazione, della quale è difficile vedere con sicurezza la fine.

Ma questa politica deflattiva, caratterizzata dall'equivoco fiscal compact, sembra far sentire qualcuno dei suoi effetti negativi sulla stessa economia tedesca, la quale, orientata soprattutto all'esportazione, incomincia a soffrire il tracollo dei consumi negli Stati membri indebitati, e a dover fronteggiare le difficoltà delle proprie banche, ingolfate da titoli del debito pubblico di quegli Stati. Né le modeste riforme introdotte finora dall'inizio della crisi sono servite a impedire il calo della produttività del lavoro e la diminuzione preoccupante del tasso di crescita degli investimenti pubblici e privati.
Così tracciata, questa è la situazione che, a seguito delle nuove elezioni che hanno riconfermato la sicura candidatura della cancelliera Merkel, i maggiori partiti tedeschi hanno concordato mercoledì scorso, dopo diciassette ore di negoziato, di formare sotto la sua guida, una «grande coalizione governativa». E non è un caso che l'Economist l'abbia, nel suo titolo di commento, significativamente e ironicamente chiamata «die grosse Stagnation».

Si tratta invero di 185 pagine di una sorta di trattato interpartitico, del quale è parte anche la Spd, cioè il partito socialdemocratico, i cui 470.000 iscritti dovranno approvarlo in un incerto referendum, con i risultati per il 14 dicembre, in tempo utile per la costituzione del governo. Qualora il referendum avesse esito negativo, si aprirebbe una fase caotica per la formazione della grande coalizione. Le riforme previste nel trattato interpartitico sono composte di una strana mistura populista, anche per soddisfare qualche timida esigenza della sinistra Spd, sicché il salario minimo è fissato a 850 euro e l'abbassamento dell'età della pensione viene portato da 67 a 63 anni, prevedendo altresì la chiusura dei reattori nucleari entro il 2022 e investimenti in infrastrutture. Con evidente caduta di stile, si dispone poi di far pagare il pedaggio sulle autostrade tedesche solo ai veicoli non immatricolati in Germania. Il tutto accompagnato da un adeguato rifiuto all'emissione degli eurobond!

E l'Europa? «In questo patto manca il sogno europeo», ha criticato l'ex cancelliere Helmut Schmidt, su Die Zeit. La Germania, rifiutando di offrire aiuto per uscire dall'emergenza all'eurozona, secondo l'opinione espressa da Jürgen Habermas, in un recente saggio, ha capitolato di fronte al populismo di destra, «che ripete gli errori del 1914». Habermas si augurava di conseguenza che la nuova grande coalizione potesse finalmente, data la sua forza ed egemonia in Europa, portare al compimento l'Unione fiscale e politica. Purtroppo rimarrà amaramente deluso. Di fronte al programma che nega anche la previsione alternativa di Thomas Mann, il risultato sarà né Germania europea né Europa tedesca, bensì semplicemente «Germania tedesca», egoisticamente aliena da ogni solidarietà e priva di quell'«anima europea» che aveva ispirato i grandi statisti Adenauer e Kohl.

Non sarà però inutile ricordare al presidente francese Hollande, il primo socialista al potere dopo Mitterrand, che quest'ultimo, compiuta nel 1990 la riunificazione tedesca, temendone la già sperimentata pericolosa egemonia, convinse Kohl - che alla fine continuava a ripetere che Germania e unificazione europea altro non erano che «due facce della stessa moneta» - a costituire l'Unione economica e monetaria.

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