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Questo articolo è stato pubblicato il 04 dicembre 2013 alle ore 07:40.
L'ultima modifica è del 19 giugno 2014 alle ore 10:59.

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In Europa solo noi, con la Grecia, siamo privi di una misura contro la povertà assoluta, cioè la condizione di chi non raggiunge uno standard di vita giudicato dall'Istat «minimamente accettabile». Le denominazioni di questa misura variano, la più nota è reddito minimo mentre l'Esecutivo parla di sostegno per l'inclusione attiva (Sia), ma la sostanza è la stessa: un contributo accompagnato dall'erogazione di servizi, sociali, educativi, per l'impiego, utili ad acquisire nuove competenze e/o a organizzare diversamente la propria esistenza. Il reddito minimo dovrebbe essere attivato con un piano nazionale che introduca progressivamente - in 3 o 4 anni - il diritto di ogni persona in povertà a riceverlo. Cominciando da uno stanziamento si procederebbe a un incremento graduale di risorse (a regime ci vogliono attorno ai 6 miliardi, quasi lo 0,4% del Pil); gli studi stimano che quelle necessarie a partire siano 900 milioni per il primo anno, cifra abbordabile.

La politica non si è mai appassionata alla povertà assoluta ma nei mesi scorsi sembrava che la sua diffusione - tocca l'8% delle persone (pari a 4,8 milioni) - ne avesse accresciuto la consapevolezza. Lo si registrava sia nel Governo, dove il ministro del Welfare Giovannini aveva preso posizione a favore del reddito minimo, sia tra i partiti. Nella Legge di stabilità, però, non vi era traccia del piano. Il maxi-emendamento governativo approvato al Senato contiene una novità: l'incremento di 40 milioni annui delle risorse destinate alla sperimentazione della Carta d'inclusione sociale. Per il prossimo anno era già prevista la sperimentazione della Carta nelle 12 città più popolose (con 50 milioni stanziati da precedenti Governi) e nel mezzogiorno (con 170 milioni ricavati dai Fondi Europei).

Il modello della Carta d'inclusione sociale, progettato dal viceministro al Welfare, Guerra, fa proprie le più interessanti indicazioni sul reddito minimo ed è condiviso da molti esperti. Si aggiungono ora questi 40 milioni per estendere la sperimentazione della Carta ai Comuni del centro-nord. Pertanto l'esperienza riguarderà tutti i Comuni italiani con una spesa annua totale di circa 260-300 milioni. Nella sua versione ampliata, la sperimentazione della Carta raggiungerà 400.000 persone, meno del 10% della popolazione in povertà assoluta. Si tratta dei membri delle famiglie povere con figli minori, in cui uno dei componenti abbia perso il lavoro negli ultimi 3 anni.

L'esigua dimensione dell'utenza riflette la differenza tra le risorse stanziate, i 260-300 milioni della sperimentazione, e i 900 che richiederebbe il piano nel primo anno. La sperimentazione durerà quasi ovunque un anno (solo nei Comuni finanziati con i 40 milioni aggiuntivi sarà di tre). Vi è, dunque, una criticità dovuta alla limitatezza dell'utenza, che pure risulterebbe superabile con maggiori investimenti negli anni successivi. Purtroppo, però, non esistono "anni successivi": la sperimentazione è per definizione a termine. Ecco il problema: l'assenza di una prospettiva, che rappresenta la vera differenza tra una sperimentazione e un Piano, cioè un percorso che sin dall'inizio definisce l'obiettivo, l'introduzione di reddito minimo destinato a rimanere, e indica i diversi passaggi per arrivarci.

Tale mancanza impedisce, tra l'altro, ai soggetti chiamati a erogare il reddito minimo - Comuni, Terzo Settore e Centri per l'Impiego - di costruire interventi adeguati. Non si può pensare che affrontino l'investimento progettuale che ciò richiede non sapendo se l'anno dopo avranno ancora le risorse necessarie. Finora il ministero del Welfare ha trovato le risorse per la sperimentazione qui e là, in assenza di una scelta a favore della lotta alla povertà. Non c'è, tuttavia, alternativa: o i leader politici decidono che l'obiettivo è una priorità o siamo condannati a infinite sperimentazioni. Per adesso, nell'anno che ha visto la povertà radicarsi nella nostra società, il Governo Letta ha deciso di non avviare il necessario Piano nazionale per contrastarla.

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