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Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2013 alle ore 10:55.
L'ultima modifica è del 07 dicembre 2013 alle ore 10:58.

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di Ugo Tramballi

La tradizione Xhosa avrebbe voluto che la salma fosse portata in ogni luogo in cui aveva soggiornato in vita. Non solo Pretoria e Qunu, dove era nato, ma anche Johannesburg, Soweto, le tre prigioni in cui era stato rinchiuso per 27 anni e perfino i luoghi africani dell'esilio. Solo così gli antenati sarebbero stati soddisfatti e Nelson Mandela avrebbe potuto riposare in pace per sempre.

La modernità con i suoi tempi di breve respiro, la diplomazia, le esigenze televisive e qualche cospicuo interesse economico hanno richiesto e ottenuto un'accelerazione. Qualche passaggio della tradizione sarà ignorato ma il culto funebre di Mandela si concluderà comunque dieci giorni dopo la sua morte. A Kunu nel Transkei, ora Provincia Orientale del Capo, con l'ultimo funerale: quello di Stato con i dignitari di tutto il mondo.

Almeno fino a quando la salma non sarà esposta, l'atmosfera del Sudafrica è più simile a quella dei giorni che precedettero il Mondiale di calcio del 2010 che a un lutto collettivo. È la celebrazione di un evento straordinario. Dunque si danza. Chi non conosce il Sudafrica non capisce che si può ballare anche senza gioia. Quel che conta è l'azione collettiva: non tanto il lutto per la morte di Mandela a cui la gente era preparata, ma la fortuna di averlo avuto come guida.

Che sia stata una fortuna qualcuno ha già incominciato a dubitare. Diciannove anni dopo la vittoria elettorale e la conquista del potere, il bilancio dell'Anc, è discutibile. Il Sudafrica resta uno dei Paesi più diseguali del mondo nella distribuzione della ricchezza. Ci sono poveri anche fra i bianchi ma solo il 6% continua a raccogliere l'acqua dal pozzo; gli africani sono i due terzi. Gli africani, cioè i neri, sono l'80% dei quasi 52 milioni di abitanti; i bianchi quasi il 9, il resto meticci, indiani e asiatici. Il reddito delle famiglie bianche (afrikaners e inglesi) è sei volte superiore a quello delle famiglie nere. Un africano su tre e un bianco su 20 sono disoccupati. L'unico fenomeno vistoso di mobilità sociale sono i "black diamonds", i super-ricchi neri: grandi imprenditori diventati tali dopo aver militato nell'Anc, beneficiari per motivi politici di quella quota della grande industria bianca, soprattutto mineraria, passata di mano grazie al "black economic empowerment": il mantra del gradualismo che, uscito di prigione, Mandela impose all'Anc, al grande sindacato Cosatu e agli alleati comunisti che ancora credevano a una presa del potere più radicale.

Vent'anni dopo, forse i grandi limiti della redistribuzione graduale di Mandela sono la causa del mancato successo: la sua scelta di lasciare ai bianchi il controllo dell'economia e affidare ai neri quello della politica. Un anno e mezzo fa una conferenza straordinaria dell'Anc a Polokwane aveva tentato di violare il comandamento, iniettando forme di radicalismo: nazionalizzazione delle miniere, immediata redistribuzione della terra. Non se ne è fatto nulla perché se il modello di Mandela non è stato il successo atteso, gli altri sono un disastro. Il vicino Zimbabwe di Robert Mugabe è un memento quotidiano: dopo aver raggiunto un'inflazione del 600 milioni % nel 2008, ora ha rinunciato ad avere una valuta. Gli altri Paesi della regione, anche quelli ricchi di materie prime come Angola e Mozambico, solo ora cominciano a vedere segni di benessere: a 40 anni dalla liberazione coloniale.

Senza essere esattamente un Paese di successo, il Pil del Sudafrica è cresciuto del 3% dal 1994 (quando Mandela diventò presidente) al 2003. Secondo l'Università di Cape Town il reddito medio è salito del 62% dal 1993 al 2008: quello dei neri del 93. Nel 2011 il 73% dei sudafricani aveva accesso all'elettricità.

In valori assoluti non è molto ma è necessario guardare al punto di partenza, quando Nelson Mandela uscì di prigione nel 1990. Dei 40 milioni di sudafricani di allora, 23 non avevano elettricità, 12 erano senza acqua potabile, un terzo era analfabeta e due milioni di bambini non frequentavano la scuola. A quelli che avevano avuto la fortuna di andarci, il sistema dell'apartheid non insegnava la matematica: il ruolo che avrebbero dovuto avere nella società segregata non richiedeva che la conoscessero.

L'errore nel giudicare il Sudafrica non è tanto nel non tenere conto della pesante eredità dell'apartheid, quanto pensare che Nelson Mandela abbia lasciato un modello di governo. Lui era un leader politico, non uno statista. Il suo successo storico è aver fatto un miracolo. Chi ha seguito le elezioni del 1994 ricorda che fino a due giorni prima del voto tutti credevano di dover raccontare una guerra civile. Si andava ai comizi con il giubbotto antiproiettile, era stata messa una bomba all'aeroporto internazionale. La Cnn mandò a Johannesburg Peter Arnett, il più famoso dei corrispondenti di guerra: dal Vietnam a Bagdad le aveva fatte tutte.

I cinque anni di governo di Mandela non furono la fase più importante della sua biografia. Gear, la Strategia per la crescita e la redistribuzione del 2006, fu un fallimento; pur entusiasta per i cambiamenti, la società africana restava passiva e i bianchi diffidenti. La cosa più significativa della sua presidenza non fu una legge ma la scelta di governare per un solo mandato e ritirarsi nel 1999, a 80 anni, perché a quell'età «un uomo deve pensare ai nipoti». Questo fu Mandela: il miracolo, la riconciliazione, la divisione del potere con gli ex carcerieri, la creazione delle condizioni perché gli altri governassero.

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